In memoriam – Monicelli

Ciao Maestro. Ciao Mario

01/12/10 – Una generazione se ne va, a poco a poco. Se ne stanno andando tutti. Tullio Pinelli, Furio Scarpelli, Suso Cecchi D’Amico. Prima gli scrittori, poi l’orchestratore. E pure un paio di orchestratori eccellenti dietro le quinte. Alfredo Bini, Dino De Laurentiis. Giusto una settimana fa si rievocava, dalle pagine di Italian Graffiti , l’ultimo grande film e grande successo di Monicelli, Speriamo che sia femmina, che nel 1985 sancì un ultimo, estremo sconfinamento della commedia all’italiana e di una grande scuola in un contesto non più accogliente come quello degli anni ’80. Fuori da ogni retorica post-mortem, Mario Monicelli è stato il cinema italiano, quantomeno dal dopoguerra in poi. Ne ha attraversato tutte le stagioni, ha percorso una vicenda umana e creativa che dagli anni ’30 si è estesa, incredibilmente, fino a pochi anni fa.

Da I ragazzi della via Pal a Le rose del deserto, una cavalcata attraverso i decenni. Dalle coregie con Steno alle opere firmate in proprio, dal puro comico dei film con Totò (con la mirabilissima eccezione del dolente Guardie e ladri, 1951) alla migliore commedia di costume italiana. Artigianato, alta qualità di scrittura, il riso cinico, disincantato e amaro di chi vede, sa, ma preferisce non vedere. Il piacere di prendere la vita a schiaffi, come in Amici miei, perché quando non si è capaci di viversi il dolore, per infantilismo, irresponsabilità o debolezza, si ride. Mario Monicelli è la storia della nostra commedia, e probabilmente del nostro Paese. Che da sempre ride per debolezza, per autoindulgenza, per sfottersi, perché non sa prendersi sul serio, e che forse diventa ancor più ridicolo quando tenta di prendersi sul serio.

Della sua sterminata filmografia, ci piace ricordare le piccole cose preziose e dimenticate. Come Romanzo popolare del 1974, in cui varie iperboli grottesche, ai limiti del ridicolo in diacronia, non inficiavano l’amarissima storia di un uomo attardato, che promuove e soffre il modernismo. O come Risate di gioia del 1960, unica reunion cinematografica tra Totò e Anna Magnani dopo le comuni esperienze nel varietà. Opera sfortunata, di scarso successo, poco vista, che tuttavia prefigura la saggia amarezza delle opere successive. O come la scatenata farsa neofascista di Vogliamo i colonnelli del 1973, film sbilenco e diseguale, che tuttavia osava un’asprezza, un pessimismo sociale cosmico, un’audacia grottesca che nel cinema italiano attuale non sarebbero più permessi. O il misconosciuto, e solo più tardi riconosciuto come capolavoro, I compagni del 1963, opera corale e sociale su una parte rimossa della nostra storia nazionale.

Non tutto, nella totalità della sua opera, è stato bellissimo, né tutto eccezionale. Ma, con lui e i suoi collaboratori già scomparsi, sparisce a poco a poco quell’artigianato industriale che permetteva al cinema italiano di poter confidare in una vastissima e costante produzione. Quale autore di oggi può anche solo sognare di chiudere la carriera con circa 70 film alle spalle? Sogni inarrivabili.

Mario se ne va. Pare si sia suicidato. Un suicidio a 95 anni. L’ultimo schiaffo alla vita.

MASSIMILIANO SCHIAVONI