Parola al Cinema

14/03/09 - La questione che è facile porsi durante la visione di “Due partite” di Enzo...

Parola al Cinema – Uno sguardo sulla sceneggiatura

“Due partite” ovvero del grado zero della scrittura cinematografica

(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)

parola-al-cinema_def14/03/09 – La questione che è facile porsi durante la visione di “Due partite” di Enzo Monteleone è: qual è il senso ultimo di un`operazione del genere? Quali sono gli orizzonti cinematografici che si schiudono da un progetto simile? Qual è, soprattutto, il senso di gratificazione, creativa o puramente professionale, che può suscitare in uno sceneggiatore il lavoro di traduzione letterale (non letteraria) di un testo teatrale? Lo spunto è buono per ritornare a parlare di tutto un filone cinematografico che ha avuto un momento di grande fioritura nei primi anni `90, con le trasposizioni cinematografiche, ad esempio, delle commedie di Umberto Marino, e che ha pure contribuito a una certa rinascita del cinema italiano, se non altro sdoganando al cinema tutta una generazione di attori di formazione teatrale. Penso a “Piccoli equivoci”, a “Italia-Germania 4 a 3”, al conseguente lancio definitivo nel cinema di Sergio Castellitto, Fabrizio Bentivoglio, Pino Quartullo, Roberto Citran.

Due partite ha i suoi meriti, soprattutto quello di confortarci con l`idea che in Italia, finalmente, possiamo permetterci il lusso di costruire un buon film essenzialmente sugli attori e sul richiamo degli stessi attori sugli spettatori, senza alcuna “svendita” o snaturamento delle loro professionalità  per andare incontro ai gusti più corrivi del pubblico. àˆ confortante l`idea che un certo star system nazionale è rinato e consolidato, e che il pubblico correrà  a vedere un film perchè è il nuovo film della Buy, o della Cortellesi, o della Ferrari, o della Pandolfi, o della Rohrwacher, e via così, a seconda dei gusti. Ma è lecito pure chiedersi perchè non si debba fare alcuno sforzo per rendere più cinematografico un materiale narrativo che di partenza non lo è. Perchè non trasformare un progetto di pura trasposizione in vera riscrittura, che tenga conto dell`adozione di un linguaggio narrativo diverso, con proprie caratteristiche e specificità . Ne esce svilito il lavoro dello sceneggiatore, e di riflesso tutto l`impianto del film, che infatti non si permette alcun tocco personale e si adagia spesso in una serie giustapposta di primi piani, appena un po` mobili, alternati a inquadrature fisse e a carrelli corali intorno alle attrici. E, per curioso paradosso, l`infedeltà  più marcata rispetto alla messinscena teatrale si riconverte in un`occasione mancata sul piano cinematografico; a teatro, infatti, le quattro attrici erano le stesse a interpretare prima il ruolo delle madri anni ’60, poi delle figlie anni ’90. Idea che poteva essere mantenuta e sfruttata, che poteva trovare un florido sviluppo in sede di sceneggiatura, e che poteva dare ottimi spunti creativi anche in sede di montaggio. Non credo che questa passività  di scrittura dipenda strettamente da un senso di profondo rispetto al testo teatrale. Il rispetto per la fonte narrativa si palesa, semmai, quando un film ridà  vita alla fonte, la valorizza, la “ricrea”. Emerge, invece, un atteggiamento da “pensiero debole” che inficia spesso, e purtroppo, la progettualità  del cinema italiano più recente.

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