La furia dei titani

28/03/12 - Il sequel mitologico con Sam Worthington ancora nei panni di Perseo: passo ancora pesante, ma la regia di Liebesman è più efficace.

Scontro tra titani, fantasy mitologico di un paio d’anni fa diretto da Louis Leterrier, è rimasto (poco) nella memoria quale esempio di come un 3D fasullo e post-prodotto possa rovinare del tutto un film che già di suo non aveva alcuna attrattiva. Nonostante le perplessità, i 500 milioni d’incasso a livello globale hanno permesso a Jonathan Liebesman di cimentarsi nella regia del seguito, La furia dei titani, con lo stesso protagonista, Sam Worthington, e un cast più o meno bloccato. Ne è uscito fuori, però, un film lievemente migliore. Stavolta Perseo, che ha giurato di lasciar perdere le battaglie e vivere col figlio come pescatore, è chiamato in causa perché il padre Zeus è in pericolo: è stato catturato dal fratello Ade con la collusione del figlio Ares, alleati per scatenare di nuovo la furia di Crono. Solita insalata di mitologia, epica e fantasy contemporaneo (c’è più di un riferimento al Signore degli Anelli), la sceneggiatura di Dan Mazeau, David Leslie Johnson e Greg Berlanti cerca di ravvivare un immaginario arcaico raffigurando la morte degli dei.

Nulla di filosofico, per carità, ma perfettamente inscritto nella tradizione del kolossal hollywoodiano post-moderno che punta su una certa iconoclastia: se nella fantascienza si distruggono palazzi celebri, monumenti, istituzioni, nel fantasy – specie quando è di matrice ‘classica’ – si distruggono gli unici pilastri di quelle terre, le divinità: che si picchiano, si distruggono, si feriscono e muoiono come un gruppo di lottatori liberi. In questo e in una stereoscopia nativa stanno i punti di forza di un film che Liebesman rende perlomeno divertente (in modo relativo, comunque), rocambolesco, rumoroso come si conviene.
Il passo, a tratti, è quello pesante e faticoso del primo film, ma la regia sa rendere più vivace il prodotto, con le riprese in continuità, le angolazioni fantasiose, l’uso ludico di un 3D profondo. Non c’è molto altro, né il pathos nè gli attori, anche se Liam Neeson ha più spazio: ma per lo spettatore-tipo di questo film, ce n’è a sufficienza per pagare il biglietto.

EMANUELE RAUCO

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