La leggenda di Kaspar Hauser

Già presentato al festival di Rotterdam, nella sezione Spectrum, il film di Davide Manuli rilegge l'enigma dell'uomo non-civilizzato, già messo in scena da Werner Herzog nel 1974.
L'intervista al regista di La leggenda di Kaspar Hauser Davide Manuli, a cura di Silvio Grasselli

A due anni di distanza da Beket, torna con La leggenda di Kaspar Hauser il cinema di Davide Manuli. Già presentato al Festival di Rotterdam nella sezione Spectrum, il film di Manuli si pone orgogliosamente come oggetto isolato e straniante della cinematografia italiana, con quel suo sguardo ostinato verso certo cinema avanguardistico anni ’70, il cui retaggio oggi – non solo in Italia – è sempre più difficile da ritrovare. E dopo aver affrontato il paradosso testuale di Samuel Beckett nel suo film precedente, ora Manuli affronta il paradosso esistenziale legato alla figura di Kaspar Hauser, personaggio realmente esistito nella Germania del 1828, quando si palesò in una piazza di Norimberga privo di ogni cognizione dell’umana convivenza. Già Herzog nel 1974 aveva raccontato l’episodio con L’enigma di Kaspar Hauser, affascinato – come in tutto il suo cinema – dall’incontro-scontro tra primitivismo e civiltà. E laddove, secondo il cineasta tedesco, Kaspar Hauser si ritrovava in una civiltà ottusa e volgare, incapace dunque di accoglierlo davvero, qui – nel film di ManuliKaspar trova una civiltà esplosa, rarefatta, individualizzata e tipizzata in alcune figure chiave (lo sceriffo, il pusher, il prete), per certi aspetti simili a lui nella loro ossessiva autisticità.

Come per Beket, Manuli sceglie quale scenario una Sardegna deserta e polverosa, il cui paesaggio ricorda con ogni evidenza quello dei film western (e la stessa icasticità dei personaggi, a partire naturalmente dallo sceriffo, rimanda forzatamente a quell’immaginario) e lo usa per l’appunto come habitat naturale di una società dissolta in cui l’improvvisa apparizione di Kaspar Hauser non può che provocare una serie di aspettative. Re, divinità o semplicemente scemo del villaggio, tutti cercano in Kaspar una lettura che lui naturalmente non può dare, privo com’è della percezione simbolica dell’umana civilizzazione. E la musica resta allora l’unico appiglio, l’unico elemento culturale comprensibile. Una musica tecno, però, un sound azzerante ma al tempo stesso positivo, liberatorio nel suo naturale sfogo del ballo compulsivo. Kaspar è il dee-jay di un mondo astratto e post-apocalittico, unico vero traghettatore da uno stato all’altro della civiltà umana.

Ambizioso e teorico, ossessivo e a tratti molto divertente, La leggenda di Kaspar Hauser è un film a-temporale e disturbante, non privo di ingenuità e di schematismi da “film d’avanguardia” e quasi tendente a uno sperimentalismo a tratti più simile a una posa che a un autentico desiderio di “riavvolgere” il presente, eppure è un film da vedere perché si possa sperare ancora – persino al giorno d’oggi – in un cinema differente. Nel cast, giganteggia Vincent Gallo, straordinario nel doppio ruolo del pusher e dello sceriffo; ottimi Fabrizio Gifuni (cui spetta il bellissimo monologo scritto da Giuseppe Genna) e l’attrice teatrale Silvia Calderoni nei panni di un androgino Kaspar Hauser (anche se ripropone con meno vigore gli stessi stilemi dello spettacolo dei Motus, Alexis, una tragedia greca); meno convincenti Claudia Gerini e Elisa Sednaoui.

ALESSANDRO ANIBALLI

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