Belli e indipendenti

16/12/11 - Penultimo paesaggio di Fabrizio Ferraro è un'inno alla luce. Protagonisti: un uomo e una donna, Parigi e la Senna. Al cinema.

Belli e indipendenti – Indagine sull’odierno cinema indipendente a cura di Giovanna Barreca

Ascolta l’intervista di RADIOCINEMA al regista:

  • Fabrizio Ferraro
  • Il nostro personale consiglio per un’ottima serata al cinema, contro i cinepanettoni e i tanti blockbuster natalizi (escluso Allen) che purtroppo imperversano già da settimana, monopolizzando le sale italiane: cercate Penultimo paesaggio di Fabrizio Ferraro, un film d’autore che racconta di noi, del modo di vivere i rapporti umani, della paura di affrontare il vuoto che ci spinge a non relazionarci con gli altri ma a consumare tutto, anche il sesso. E ancora il nostro rapporto con gli spazi e col dispositivo filmico. Ferraro rompe i clichè anche giocando con gli elementi più banali del cinema: una sinossi – la relazione tra due sconosciuti a Parigi – che non riassume il film ma è pretesto perché, come ha dichiarato in un’intervista “Bisogna insegnare a vedere abissi dove ci sono solo luoghi comuni” – come diceva Karl Kraus. Ma sono molte altre le citazioni letterarie: Delfini, Lawrence, Rimbaud, solo per citarne alcune, e cinematografiche Vittorio De Seta (anche se film di finzione c’è nel lavoro con gli attori e nel muoversi tra le strade di Parigi la ricerca dello straordinario, dell’imprevedibile tipica del cinema documentario), Jean-Marie Straub, Jean-Luc Godard e ovviamente Ultimo Tango a Parigi di Bernardo Bertolucci che Ferraro usa come testo: la storia di due sconosciuti, un uomo maturo e una ragazza che si incontrano a Parigi diventano il mezzo per esplorare come l’uomo abbia, negli ultimi quarant’anni, trasformato in consumo l’uso dei corpi; l’uomo che non sa più vivere le relazioni e la vita.

    Vedere The Tree of Life di Terrence Malick fu, anche – tra altro – una forte esperienza visiva per l’esplosione dei colori così densi e vivi, qui ad esplodere sono invece i bianchi, i neri e le diverse sfumature di grigio della Parigi dove un uomo e una donna si incontrano sempre all’interno di un appartamento scarno: “Stai qui da 4 mesi e non hai appeso neppure un quadro” – afferma la ragazza prima di iniziare a disegnare sul muro per provare a riempire forzatamente il vuoto di una relazione basata non sulla frequentazione di due persone ma solo sul reciproco uso dei corpi per consumare rapporti sessuali fini a se stessi, in una stanza che non è né casa né ufficio (sulla porta ancora la targa: Universal Money). Una stanza da cui non escono mai per fare neanche una semplice passeggiata come chiede la ragazza, ma Parigi – metafora anch’essa dell’alienazione dei rapporti umani – entra come una forza dirompente con i suoi monumenti, le sue manifestazioni, la sua vita da metropoli che si è espansa in maniera incontrollata, limitando anche il percorso della Senna. Il grande fiume che attraversa Parigi è il quarto protagonista, dopo la città e i due sconosciuti. Il film si apre con la macchina da presa che sembra filmare da una chiatta e attraversare il fiume in un punto di grande apertura, tra altri battelli, palazzi, alberi, attività commerciali. Alla fine dell’opera, invece, con lo stesso mezzo, alla stessa naturale velocità, con l’assenza di rumore di motori e lentamente, percorriamo un tratto sotterraneo del fiume dove il colore dell’acqua assume tonalità di nero intenso dato dall’oscurità, fino a giungere nuovamente alla luce del sole: un’esplosione nel bianco. La giovane in bici sui ponti e tra le vie più affollate dove ricerca contatti umani che riempiano, com’è stato per l’incontro con l’uomo, un vuoto interiore alla ricerca della felicità (“Voglio essere felice e non vedere più il telegiornale”) e lui che sceglie di tenere lontano tutto quel mondo perché disprezza l’indifferenza o peggio il modo degli uomini di relazionarsi rispetto agli altri uomini e alle cose usando tutto – secondo l’uomo – in funzione solo del denaro: “Denudatevi e guardatevi” vorrebbe urlare a tutti. Pulizia dei gesti, tableaux vivants che giocano sulle geometrie dei corpi in un lavoro di sottrazione per Luciano Levrone e Simona Rossi, interpreti straordinari che danzano davanti ad una macchina da presa che rimane ferma per lasciare ai loro corpi il compito di guidare lo spettatore e parlare una lingua comune. Un uomo e una giovane donna che si negano anche nel linguaggio un punto di contatto: “Siamo italiani ma parliamo in inglese” dice la ragazza durante uno dei primi incontri con l’uomo che fissa tali regole perchè sia chiaro da subito che genere di rapporto vuole instaurare. Molto interessante, per finire, anche il lavoro sui suoni dove quelli diegetici spesso vengono sottratti, altre volte vengono appesantiti da nuovi ed estranei al contesto, a volte sostituiti da quelli extradiegetici con musiche di Paolo Fresu e Daniele Di Bonaventura oltre alle partitute di Bach. Il film è prodotto da Marcello Fagiani per Boudu Film, con Rai 3 e Fuori Orario. Consigliamo il film, la visione dei documentari di Fabrizio Ferraro e il libro edito nel 2006: Breviario di estetica audiovisiva amatoriale – Natura, immagine, etica (ed. Derive Approdi) per conoscere meglio e a fondo una nuova visione autoriale, indipendente nelle forme e nei contenuti, di cinema.

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