Berlino, Howl

15/02/10 - Il bio-pic, croce e delizia degli anni “2000”, pare proprio sia giunto a un punto di...

Alla 60. Berlinale, la Rapsodia beatnick di Rob Epstein e Jeffrey Friedman

(Dalla nostra inviata Daria Pomponio)

howl15/02/10 – Il bio-pic, croce e delizia degli anni “2000”, pare proprio sia giunto a un punto di svolta. L’innovazione proviene, come al solito, dalla fucina del cinema indipendente situata nel remoto Utah, che porta il nome di Sundance. Attraverso il Festival fondato da Robert Redford e il Sundance Film Institute (organismo che supporta il cinema indie), giunge ora alla Berlinale 2010 “Howl” di Rob Epstein e Jeffrey Friedman, film biografico che rifiuta le regole del genere per tentare di ricostruire, davanti al nostro sguardo, il pensiero, l’opera e qualche sprazzo d’esistenza del poeta beat Allan Ginsberg. Anzichè ricercare nella sregolatezza o nell’infanzia infelice (come spesso accade nei bio-pic hollywoodiani) le origini del genio creativo, “Howl” si affida alle parole stesse del celeberrimo poeta statunitense, lasciando che le sue personali scelte di vita libera e scapestrata emergano in superficie come qualcosa di assolutamente normale e al tempo stesso intimo, personale.

Rigoroso nella struttura, ma pronto a cedere il passo a momenti di aperta visionarietá, “Howl” alterna quattro differenti tipi di narrazione: ci sono le interviste a Ginsberg reinterpretate dall’ottimo (era ora che dimostrasse il suo valore!) James Franco, le scene che riguardano il processo per oscenitá cui fu sottoposto l’editore di Howl (L’urlo, in italiano), lacerti in bianco e nero che ricostruiscono il clima della beat generation e i momenti salienti dell’esistenza di Ginsberg (l’amicizia con Kerouac, quella con Neal Cassady) e infine un’animazione digitale che mira a restituire per immagini il poema da cui il film prende il titolo. L’amalgama non sempre funziona, va detto, e il film, pur ammirevole nella sua scelta fermamente anti-agiografica, vacilla purtroppo nelle sequenze animate, poco fantasiose nella grafica ed eccessivamente didascaliche nel loro tentativo di trasferire la poesia sullo schermo. Gran merito della credibilitá di questa ardita e in parte riuscita biografia beat deve essere attribuita agli interpreti. Oltre al giá citato James Franco (che in passato ha anche interpretato James Dean per un bio-pic televisivo), nelle sequanze processuali troviamo, seduto al tavolo dell’accusa, il sempre ineccepibile David Strathairn, qui nei panni di un inflessibile difensore della letteratura pudica e acerrimo avversario dunque del poema di Ginsberg. Mentre sul banco dei testimoni fanno la loro comparsa Jeff Daniels, Alessandro Nivola e Mary-Louise Parker.

Questa complessa rapsodia beatnick, che preleva la sua struttura per libere associazioni direttamente dalla musica jazz che furoreggiava tra i giovani dell’America del dopoguerra, riesce dunque a a ritrarre con affezione e verosimiglianza il personaggio Allen Ginsberg e serba inoltre un ammirevole valore didattico, ma l’alternarsi dei quattro diversi livelli di narrazione rischia alla lunga di risultare alquanto meccanico e prevedibile. Nonostante le capacitá mimetiche di Franco, resta inoltre sempre vivo nello spettatore il desiderio di vedere e ascoltare il “vero” Allen Ginsberg, desiderio che verrá esaudito, c’era da aspettarselo, proprio alla fine del film.