Yimou, il regista del regime

02/05/11 - Presentato al Far East Under the Hawthorn Tree, l'opera che consacra l'autore di Lanterne rosse a cineasta di stato.

Dal nostro inviato ALESSANDRO ANIBALLI

Che Zhang Yimou, regista capofila della rinascita (se non addirittura della nascita) del cinema cinese negli anni Ottanta (Sorgo rosso, Lanterne rosse), fosse in una crisi ideologica e cinematografica, di ben difficile soluzione, cominciava a subodorarsi da Hero (2002) e La foresta dei pugnali volanti (2004), si era fatto più chiaro con Mille miglia lontano (2005), per diventare quasi certezza con A Simple Noodle Story (2009), remake di Blood Simple dei fratelli Coen, ma ormai è assodata realtà di fronte alla visione di Under the Hawthorn Tree, lacrimevole storia d’amore ambientata ai tempi della Rivoluzione Culturale. Sotto il profilo ideologico va detto che Zhang Yimou è senza dubbio il vero cineasta di regime, il “facitore” privilegiato delle messe in scena ordite dalla Repubblica Popolare Cinese, e non è un caso che a lui fu affidata la regia della cerimonia di inaugurazione delle Olimpiadi di Pechino del 2008, così come non è un caso che vi siano ripetutamente attriti tra lo stesso Zhang e Jia Zhangke, il cineasta che invece più di tutti mette in discussione le dinamiche della folle espansione economica della Cina contemporanea. E se, parlando ora cinematograficamente, film in costume come Hero o remake di film americani come A Simple Noodle Story avevano tenuto più o meno a distanza discorsi che potevano risultare scomodi politicamente, ora con Under the Hawthorn Tree Zhang Yimou decide di affrontare direttamente il periodo storico più controverso della Cina recente, la Rivoluzione Culturale per l’appunto.

Il film, presentato alla 13/a edizione del Far East Film, racconta la storia d’amore tra due personaggi che vivono solamente sullo sfondo i drammi di quel periodo. È proprio qui infatti che “fa scandalo” Zhang Yimou: decidere di raccontare un banale romance quasi ignorando il contesto storico in cui vivono i protagonisti, come a voler far dimenticare al pubblico le enormi tragedie che si vissero in quegli anni (e con cui il regime naturalmente non ha ancora fatto i conti). Il rifugio assoluto nell’intimismo in anni in cui non era possibile l’intimità, proprio perché le dinamiche della Rivoluzione Culturale condannavano chiunque alla pubblica denuncia o auto-denuncia, vale dunque da certificato di assoluzione da parte di un cineasta che, proprio per aver perso la libertà intellettuale, ha perduto anche la forza un tempo vitale del suo cinema. Under the Hawthorn Tree infatti ha la cadenza di uno sceneggiato televisivo, è fotografato con dei colori freddi (dando quasi l’impressione di quei film in bianco e nero poi ricolorati in digitale) ed è estremamente meccanico nelle dinamiche tra i personaggi. Nel film, al di là dei conflitti storici, mancano persino i conflitti drammaturgici (l’amore “proibito” della ragazza protagonista viene poi assolto dalla madre con un voltafaccia sconcertante) e sembra perciò di assistere a una storia priva di vita, fredda e ghiacciata nonostante si racconti una vicenda amorosa che dovrebbe essere strappalacrime. Ed è anche qui allora che si misura l’abisso che ancora separa l’industria cinematografica cinese da Hollywood. Il modello americano, cui con tutta evidenza il nuovo volto della Repubblica Popolare cerca di tendere, resta irrangiugibile nella naturalezza del suo discorso ideologico: la grandezza della democrazia statunitense, al di là delle varie contraddizioni, è fortemente viva in ogni suo esponente cinematografico. Al contrario, la cinematografia cinese, che vive in una situazione non democratica, non può fare a meno di scadere, spesso e volentieri, nell’ingenua propaganda. E quando anche si prova a bypassare il discorso, come nel caso di Under the Hawthorn Tree, dove l’ideologia dovrebbe procedere per via indiretta, non funziona lo stesso perché forse è il regista in primis, magari inconsciamente, a non credere nell’operazione. Perciò l’idea – che forse c’è – di rendere Zhang Yimou una sorta di Spielberg cinese è destinata necessariamente a fallire: il secondo sa far vivere davvero lo spirito americano con estrema naturalezza, il primo invece manca di quella spontaneità e nelle sue operazioni pare sempre di leggere una malizia ideologica.