Dead Men Talking

04/11/11 - In concorso ad Extra, un documentario sul reality cinese in cui si intervistano i condannati a morte e i loro familiari, per educare i telespettatori.

Dal nostro inviato ALESSANDRO ANIBALLI

Capita a volte di trovarsi al cospetto di un oggetto opaco, un documento filmato che non parla solo per se stesso, cioè per quel che mostra, ma che invece dice qualcosa per via traversa, indiretta. Qui al Festival di Roma è già successo con Love for Life, fallimentare tentativo di Gu Changwei di raccontare l’AIDS in Cina, dove si leggeva – tra un fotogramma e l’altro – un pesante e doppio intervento censorio, governativo e mercantile. E ora si viene colti di nuovo dallo stesso stordimento interpretativo con un altro film proveniente dal Paese di Mezzo: Dead Men Talking, selezionato in concorso in Extra e diretto da Robin Newell, regista australiano – probabilmente di stanza in Cina – di cui si sa poco (non si è riusciti ad averlo ospite qui al festival). Newell mostra il dietro le quinte di un programma TV seguitissimo nella provincia dello Henan, Interviews Before Execution, una sorta di reality show sui condannati a morte. Protagonista del documentario è la conduttrice televisiva Din Yu che qualche anno fa ha avuto l’idea di fare un programma su un argomento così spinoso. Il suo obiettivo è chiaro quanto moralmente ambiguo: andare dai condannati a morte, metterli di fronte alle mostruosità che hanno compiuto e convincerli a chiedere scusa a familiari e parenti delle vittime. Una pubblica gogna, un’umiliazione davanti a milioni di spettatori, che dovrebbe educare il pubblico convincendolo a evitare di compiere delle cattive azioni. Chiaramente, quel che al contrario scatta è il sensazionalismo, il lacrimevole e l’atrocità di certe reazioni umane: i familiari del condannato che chiedono scusa umiliandosi al cospetto dei parenti della vittima che non accettano di perdonare.

L’opacità di Dead Men Talking però è ben più complessa: il documentario di Newell finge di denunciare la pena di morte e la pratica di un programma deprecabile, non avendone in realtà l’intenzione. Così come il programma TV di cui si parla, anche il documentario si muove sulla linea dell’ambiguità, con una voice over ovattata e oggettiva e una modalità di ripresa che spesso arriva a identificarsi con le videocamere degli operatori di Din Yu (la coincidenza dello sguardo diventa coincidenza delle intenzioni). Il narratore usa l’inglese e si rivolge dunque evidentemente a un osservatore occidentale, ma non bisogna dimenticare che lo stesso documentario è stato prodotto con soldi cinesi. Si capisce allora che con Dead Men Talking si assiste a un goffo tentativo da parte cinese di raccontare una mostruosità del loro sistema televisivo a un pubblico occidentale provando – se possibile – a giustificare la pratica della condanna a morte. E se lo stile fintamente oggettivo operato da Robin Newell viene alla lunga alla luce, rimane però la potenza di un argomento sconvolgente: il meccanismo televisivo è arrivato al punto di spettacolarizzare anche la morte, superando in potenza persino il vivere civile e la regolamentazione legislativa. La televisione diviene infatti il vero tribunale, un tribunale educativo in cui l’assassino accetta le sue colpe, ammette di meritare la morte, chiede perdono e chiede al pubblico di non fare i suoi stessi errori. In Dead Men Talking si legge ancora una volta in filigrana la propaganda di un regime, quello cinese, che sta diventando via via più raffinato, almeno al cospetto dei suoi cittadini.