Dream Team

Dopo il biopic, il fanta-thriller e l'animazione Olivier Dahan torna sugli schermi con una commedia demenzial-sportiva super commerciale ma garbata.

Sarà perché il tempo estivo non accenna ad arrivare. Sarà perché gli incassi durante tutta la stagione ormai in via di conclusione sono stati al di sotto anche delle previsioni più nere. Sarà perché di film se ne fanno sempre di più con budget sempre più piccoli. Fatto sta che a giugno già inoltrato il listino delle uscite in sala non solo non accenna ad assottigliarsi ma anzi sembra trovare la qualità e la quantità mancate per quasi tutto il resto dell’anno. In questa strana fine di primavera esce anche la commedia demenzial-sportiva per platee universali di Olivier Dahan. Dahan chi? Lo stesso dietro il dramma bio-popolare sulla vita di Edith Piaf (La vie en rose), lo stesso dietro il secondo capitolo de I fiumi di porpora, lo stesso che all’inizio degli anni duemila andava in sala con il lungo d’animazione Pollicino. Nonostante l’apparente drastica distanza tra i tre titoli sopra elencati c’è un elemento che li accomuna tutti e che li assimila perfino a Dream Team, l’ultima fatica del nostro: l’aspirazione potentemente e onestamente commerciale.

Già, perché se ci si ferma a guardare da lontano questa commedia di grana grossa per tutta la famiglia, si scopre presto una lista d’ingredienti ben assortiti, scelti e confezionati che possono accontentare i palati più diversi: lo sport, il calcio, prima di tutto e con esso la storia del declino e del riscatto del protagonista – calciatore in disarmo fisico e morale – ma anche dei suoi amici calciatori; la quest da affrontare e superare per trovarsi alla fine felici e redenti; un po’ di romanticismo poi, ché l’amore è sempre il più bel premio che qualsiasi eroe possa desiderare; gag e situazioni paradossali a piene mani, perché si sa che il pubblico vuol ridere; infine quel tanto di rappresentazione del presente sociale che faccia star satollo anche il più scettico tra gli spettatori.

L’eroe positivo è il calciatore bruciato dal successo ma ancora in grado di sinceri slanci d’amore (soprattutto per l’adorata figlioletta); il mentore/alleato verso la redenzione è un vecchio umile ma astuto che presiede una scalcinata squadretta di provincia; la bella è la di lui figlia, vedova, giovane e naturalmente con figlio a carico; il manipolo di ex professionisti compagni di vecchie battaglie sul rettangolo verde non è altro che il piccolo esercito che giunge in aiuto all’eroe nel compimento della sua missione; e la missione infine – il drago da sconfiggere – è la felice soluzione del fallimento che rischia la piccola fabbrica di conserve ittiche, unica attività economicamente rilevante in seno alla comunità isolana dove il protagonista trova il suo riscatto. Dalla feccia alla consacrazione, dalla solitudine codarda alla redenzione eroica e comunitaria c’è il solito ginepraio di disavventure più e meno buffe, tutte sufficientemente idiote e ingenue. Però, ecco, il pregio migliore di questo prodotto da scaffale di supermercato cinematografico, girato un po’ come una commedia a sfondo sociale anglosassone e un po’ come il comico demenzial-sportivo della produzione in serie statunitense, sta proprio nelle sue aspirazioni schiettamente umili, nell’ordine e nell’essenzialità della struttura, nella povertà ideale e immaginativa di un film che si contenta lucidamente di essere prodotto di consumo, rapido facile e innocuo.

SILVIO GRASSELLI