Fino a prova contraria – Devil’s Knot

Dotato di un gusto particolare per l'essenziale, in questo caso Egoyan non lascia grande spazio all'espressione emotiva della vicenda, ma si concentra sulla ricostruzione del caso riuscendo allo stesso tempo a descrivere con particolare 'fastidio' l'ottusità di una certa provincia americana.

La sera del 5 maggio 1993 John Byers, patrigno di Christopher Byers, denuncia alla polizia di West Memphis la scomparsa del figlio e dei compagni di scuola Stevie Branch e Michael Moore. Tutti e tre di soli otto anni, i ragazzi vengono visti per l’ultima volta nel primo pomeriggio dopo le lezioni fino a quando i loro corpi non vengono ritrovati legati con i lacci delle scarpe e selvaggiamente picchiati nel torrente di un campo chiamato Robin Hood Park. Con questo triplice assassinio ha inizio la vicenda conosciuta dall’opinione pubblica come il caso de i Tre di West Memphis. Una denominazione, però, che non identifica le vittime ma gli allora adolescenti e presunti assassini Daniel Echols, Jessie Misskelley e Jason Baldowin capaci allo stesso tempo di sollevare lo sdegno di una cittadina bigotta e seri dubbi sulla sicurezza del procedimento giudiziario. La comunità, come spesso accade in questi casi, esige quanto prima l’identificazione di un colpevole e i tre ragazzi, visto i loro gusti per l’evil metal e un abbigliamento anticonformista, rappresentano il bersaglio migliore. E’ così che intorno a loro si costruisce una ragnatela di testimonianze e prove spesso deboli e poco chiare fino a rasentare da parte della polizia l’insabbiamento di evidenti incongruenze. A portarli in tribunale e, successivamente, a fargli sfiorare la pena di morte trasformata in una condanna all’ergastolo, è l’accusa di pratiche sataniche con sacrifici umani nonostante non esista alcuna prova confutabile e inconfutabile del loro coinvolgimento. Indubbiamente problematici e figli di realtà familiari discutibili, vengono inchiodati da testimonianze alla lunga, ma anche a breve termine, incongruenti e traballanti. Il primo a puntare il dito contro i suoi compagni è lo stesso Misskelley che, con una confessione confusa e caratterizzata da forti incongruenze, ammette il proprio coinvolgimento e quello degli amici nell’uccisione dei bambini.

La polizia, però, non tiene conto di alcuni particolari importanti; ossia della limitata capacità mentale del ragazzo e della sua “ignoranza” riguardo a elementi fondamentali dell’assassinio. In breve, come posso dei colpevoli risultare tutti innocenti alla macchina della verità, non essere scientificamente presenti sul luogo del delitto, visto che il loro DNA non è rintracciabile nel bosco né sul corpo delle vittime, e ignorare le stesse modalità dell’uccisione? Questi sono i dubbi che, supportati da altre scoperte inquietanti come la presenza di sangue sospetto sul coltello da caccia di John Byers e la ritrattazione di alcune testimonianze, hanno fatto sollevare molti dubbi sull’attendibilità di una condanna emessa troppo alla leggera.
Così, dopo la riapertura del caso nel 2007 grazie a nuovi esami del DNA e l’intervento di molte star del cinema come Johnny Depp e Peter Jackson, i tre di Memphis hanno concluso un accordo con i pubblici ministeri secondo il quale, pur professando la loro innocenza, sono stati “costretti” ad ammettere il coinvolgimento in un delitto non commesso. In questo modo sono riusciti a tornare in libertà ma con l’onta di una incriminazione. Questa è la base della storia raccontata da Mara Leveritt nel romanzo Devil’s Knot : The True Story of the West Memphis Three da cui Atom Egoyan ha tratto il suo Fino a prova contraria – Devil’s Knot. Dotato di un gusto particolare per l’essenziale, in questo caso il regista non lascia grande spazio all’espressione emotiva della vicenda, ma si concentra sulla ricostruzione del caso riuscendo allo stesso tempo a descrivere con particolare “fastidio” l’ottusità di una certa provincia americana guidata dal bisogno di aderire a delle convenzioni sociali obsolete.

Una scelta a prima vista fredda e piuttosto drastica ma che invece rappresenta chiaramente la posizione assunta da Egoyan rispetto all’insieme piuttosto confuso di stravolgimenti emotivi e prove inquinate che hanno caratterizzato il caso. Attento, scrupoloso e non nascondendo una sua personale opinione, il regista non cede alla tentazione d’imporre la propria presenza e, utilizzando l’eleganza moderata di Colin Firth, veste il doppio ruolo di osservatore e narratore. In questo modo l’attore, anche se posizionato sempre in una posizione marginale rispetto alla scena del delitto e allo svolgimento processuale, rappresenta lo sguardo con cui il pubblico raccoglie informazioni sulla realtà rappresentata. Stanco e fiaccato dai suoi insuccessi personali, il personaggio continua a lottare spinto dall’ideale di giustizia e dalla necessità di salvaguardare un futuro minacciato proprio dagli uomini. Per questo, seduto tra la folla o sul fondo dell’aula, Colin Firth continua ad imporre la sua presenza mai invasiva per definire il particolare all’interno di un insieme universale. Un lavoro che Egoyan svolge, allo stesso tempo, con la macchina da presa intervallando close up intensi a campi lunghi per raccontare le reazioni dei singoli in relazione con una comunità spesso soffocante e impersonale. Il tutto con un minimalismo che potrebbe rasentare la freddezza, ma che lascia spazio alla forza naturale del dramma liberato da ogni orpello narrativo.

Tiziana Morganti per Movieplayer.it Leggi