Flussi seriali

06/10/11 - Le mille facce di Jane Eyre: un’eroina letteraria trasfigurata dal tempo dei suoi adattamenti. E nella partita tra cinema e tv vince quest’ultima.

Flussi seriali – Percorsi e influenze odierne e vintage delle serie americane a cura di Erminio Fischetti

flussi-serialiEvergreen. Romanzi che ciclicamente tornano alla luce per ridefinire il sapore del tempo. Spesso è stato il cinema (e poi la televisione) a ristabilire questi flussi. Puntuali come un orologio. Un tempo e uno spazio che è stato concesso ai classici della letteratura, in particolare inglesi, aggrappati alla propria lunga e notevole tradizione per l’arte della scrittura. A differenza di Jane Austen, di cui sono stati adattati tutti gli scritti, nel caso di Charlotte Brontë il fulcro resta la sua pietra miliare, Jane Eyre (l’unico oltretutto ad essere in campo editoriale ristampato continuamente), immortale e cupo romanzo del tardo romanticismo che si erge a bandiera di letteratura femminista – ritratto intenso della reietta condizione della donna e ancor più sconvolgente violenza nei confronti dell’infanzia. Delle trentatré versioni realizzate per il grande e piccolo schermo ben diciotto appartengono a quest’ultimo, alcune delle quali restano maggiormente nella memoria per il loro interesse rispetto a quelle cinematografiche, di una certa rilevanza estetica solo La porta proibita, la cupa versione di Robert Stevenson del 1944, interpretata da un giovanissimo Orson Welles e da Joan Fontaine (escludendo a priori le numerose versioni mute perché purtroppo andate perdute o di difficile reperibilità), e in parte quest’ultima Jane Eyre attualmente nelle sale, diretta da Cary Fukunaga, e interpretata da Michael Fassbender e Mia Wasikowska, accuratissima nella sua forma (splendide le scenografie, i costumi, la fotografia).

La costanza dei classici, che per l’universalità dei temi restano sempre attuali, funge nella società quasi come un termometro per visualizzarne le interpretazioni e gli adattamenti. Non è un caso che il padre del cinema horror a basso costo Jacques Tourneur utilizzi a modello il plot del romanzo della Brontë, sradicandolo del tutto dal suo contesto geografico e temporale, per costruire il suo capolavoro Ho camminato con uno zombie. In ambito televisivo, invece, le versioni di Jane Eyre, forse restano interessanti più che altro per l’evoluzione dello sguardo di una società su quegli stessi temi nonché proprio la storia del mezzo attraverso la messa in scena. Difatti analizzando parallelamente nei decenni le versioni filmiche a quelle tv realizzate nei medesimi periodi si può osservare come col tempo i due mezzi si incontrino sia nell’estetica che nella sottolineatura di determinati aspetti psicologici, tanto che nel 2006 la versione televisiva della BBC resta in parte simile a quella in uscita in questi giorni. È come una magnifica ossessione rivedere la rielaborazione di un classico della popolarità di Jane Eyre: non porta certo gli spettatori a fruire il prodotto per conoscerne la storia, quella la sanno già, bensì “rivederla” in altre vesti e forme. Ritrovare must fondamentali della cultura e riprenderli con i colori e gli stili della propria contemporaneità, coglierne nuovi aspetti. Perché, in fondo i topoi delle storie sono sempre quelli; che Jane Eyre viva nella brughiera ottocentesca non vuol dir nulla perché sullo schermo lei è sempre figlia del suo tempo visuale e non di quello delle parole impresse sulla carta. Questo aspetto è proprio il mezzo della visualità a sancirlo perché l’opera della maggiore delle tre sorelle Brontë è sempre quella ed è scolpita nella pietra della letteratura, ma è proprio vedere le sfumature diverse che vengono colte dalle generazioni successive, l’aspetto che fa più leva oggi rispetto al passato all’interno di un romanzo a definirne il suo valore. Così come l’estetica della realizzazione delle varie rappresentazioni televisive: la versione di Jane Eyre nel castello di Rochester di Delbert Mann, uscita nel 1970, è così tardo anni Sessanta nella decorazione degli interni, nei costumi, nella bella colonna sonora di John Williams, nella scelta di attori di grande calibro come George C. Scott e Susannah York, ma inadatti alla parte; quella mediocre del 1983 con Timothy Dalton nelle improbabili vesti di Mr. Rochester pecca invece di interni da studio tipici dell’epoca, mentre quest’ultima del 2006 è diretta e scritta finalmente da due donne, Susanna White e Sandy Welch, che la sviluppano allo stesso tempo su atmosfere rarefatte e concrete. L’accuratezza del marchio BBC (che produce anche quest’ultima versione cinematografica) fa il resto.

Alla fine resta una versione interessante fosse anche solo per l’aderenza alla struttura del romanzo, ai suoi toni e alla conseguente performance dell’esordiente Ruth Wilson che ripercorre la vera essenza della protagonista. Senza pensare che la tv doveva perdere la sua funzione educativa per cogliere che Jane Eyre è tutt’altro che un’eroina bigotta, bensì una figura cupa e poco incline all’amore romantico, tantomeno a quello materno, di certo non al matrimonio secondo i canoni dell’epoca. Charlotte Brontë sancisce la figura di una donna che lotta per ottenere, su un piano intellettivo, lo stesso rispetto culturale, sociale ed economico conferito all’uomo. Jane Eyre è una storia drammatica, fatta di bellissime sfumature horror e gotiche (quasi mai colte). Non quella di un’istitutrice bruttina che si innamora del padrone. Jane è la donna forte e fiera che costruisce un rapporto paritario con un uomo. Lo ottiene. Ed è forse l’unica storia d’amore che conta. Ci voleva una versione televisiva per sancirlo, e il cinema, con quest’ultima edizione di Fukunaga, in tal senso fa un piccolo passo indietro. Nonostante la maniacale e bellissima cura della confezione.

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