George Harrison

26/11/11 - Nella sezione Festa Mobile, durante la giornata di apertura di Torino 29, arriva l'atteso documentario diretto da Martin Scorsese dedicato all'ex Beatle.

Dal nostro inviato ALESSANDRO ANIBALLI

Se da un lato, nella sua ormai decennale dimensione hollywoodiana (da Gangs of New York in poi), Scorsese sta operando una riscrittura dei generi cinematografici che è insieme rivisitazione della storia del cinema e degli Stati Uniti (il thriller e la paranoia anni ’50 con Shutter Island, il kolossal in costume e la nascita di una nazione con lo stesso Gangs of New York, il biopic e la golden age della Fabbrica dei Sogni con The Aviator, addirittura la nascita del cinema con l’imminente Hugo Cabret), dall’altro il cineasta americano porta avanti da tempo una più diretta funzione storica che si esplica prevalentemente in forma documentaristica, da Viaggio nel cinema americano a Il mio viaggio in Italia a Lady by the Sea: The Statue of Liberty, fino ai lavori dedicati alla musica. Rientra naturalmente in questo campo il film dedicato alla figura del chitarrista dei Beatles scomparso nel 2001, George Harrison – Living in the Material World, presentato nella sezione Festa mobile – Paesaggio con figure alla 29/a edizione del Torino Film Festival. Il confronto più immediato nell’ambito della filmografia del cineasta viene da No Direction Home: Bob Dylan, documentario che nel 2005 Scorsese dedicò all’autore di Blowing in the Wind. Allo stesso modo del Dylan sempre in fuga da se stesso, anche Harrison finisce per emergere come una figura sostanzialmente enigmatica: prima costretto a restare in disparte negli anni dei Beatles a causa dello spirito accentratore e competitivo di Paul McCartney e di John Lennon, poi esploso grazie a uno straordinario album solista (All Things Must Pass, 1970), ma comunque costantemente esposto a una lacerazione tra la celebrità e il rifiuto della stessa.

Esattamente della stessa durata di No Direction Home: Bob Dylan (208′), George Harrison – Living in the Material World è costruito però, rispetto al precedente lavoro, in una forma apparentemente più tradizionale: una prima parte dedicata al percorso compiuto da Harrison con i Beatles e una seconda rivolta alla sua carriera da solista, entrambe inframezzate da interviste a parenti e amici. Ed è proprio nel momento in cui Harrison si libera dall’influenza del duo LennonMcCartney che riesce a esprimere meglio la sua individualità di artista e di uomo e – non a caso – è qui che Scorsese compie anche le scelte più radicali, giocando su delle ellissi e passando in rassegna in modo improvviso – e perciò sorprendente – i mille volti e le mille attività dell’Harrison post-Beatles: la passione per l’automobilismo, la carriera da produttore cinematografico nata per finanziare Brian di Nazareth (1979) dei Monty Python, il sostanziale e progressivo abbandono della vita pubblica avviato con l’acquisto della reggia di Friar Park e la cura personale dell’immenso giardino, la profonda influenza della musica e della cultura indiana con insieme però l’abbandono già nel ’70 dello strumento principe di quella tradizione e cioè il sitar. Ne discende una sorta di frenesia dietro cui si cela il tema centrale del film, la contraddizione insita al personaggio di Harrison tra materialità e misticismo, tra celebrità e desiderio di annullamento.

Ecco che allora, in tal senso, Harrison diventa improvvisamente un personaggio “scorsesiano”, molto più di quanto non fosse Dylan. L’idea di sacro e profano del resto è insita in tutta la cinematografia del regista e il mito dei Beatles fu anche questo, quello di quattro ragazzi che divennero più famosi di Gesù (come da celebre battuta di Lennon). Lo stesso primo film prodotto da Harrison, Brian di Nazareth, venne accusato di blasfemia, come del resto accadde anni dopo a Scorsese con L’ultima tentazione di Cristo (1988). Infine l’ansia quasi nevrotica di conoscere e frequentare lo scibile umano sembra accomunare Scorsese e Harrison, così come gli ultimi anni vissuti lontano dalle scene dal cantante presentano dei tratti in comune con il percorso dello Howard Hughes raccontato da Scorsese in The Aviator. E addirittura in una vecchia intervista – chiaramente non fatta dal regista americano – Harrison risponde proprio a una domanda del genere e cioè a un possibile parallelismo tra la sua figura e quella di Hughes. Insomma, dietro a un apparato di apparente classicità documentaristica, George Harrison – Living in the Material World riesce incredibilmente a tracciare una sottilissima tessitura fino a consegnare un enigma che è sì quello di un uomo, ma anche allo stesso tempo di un cinema, quello di Scorsese capace di sorprendere ogni volta per la sua ricchezza di spunti.

ARTICOLI CORRELATI:
Pillole di Hugo Cabret