Ghosted

03/12/11 - Il confuso e approssimativo prison movie di Craig Viveiros è forse il meno riuscito degli esordi proposti nel concorso di Torino 29.

Dal nostro inviato ALESSANDRO ANIBALLI

A tenere ancora fede all’idea originaria del Festival di Torino, quella di offrire uno sguardo sul cinema giovane, ci pensa come al solito il concorso della manifestazione riservato a registi che sono al loro primo, secondo o terzo film. E quest’anno, tra i 16 titoli selezionati per la competizione, ben otto sono realizzati da esordienti, tra cui – però – capita di dover trovare un film decisamente infelice come Ghosted dell’inglese Craig Viveiros. Quasi interamente ambientato all’interno di un carcere, Ghosted ha come protagonista Jack (interpretato dall’irlandese John Lynch) che, oltre a essere stato condannato per omicidio, deve vivere anche nel dolore per un terribile lutto familiare. Inoltre – e il quadro si fa completo – all’inizio del film Jack viene anche lasciato da sua moglie per telefono. È in questo stato d’animo che l’uomo si troverà a dover affrontare il prosieguo della sua vita carceraria, a partire dalla novità dell’arrivo in cella del giovane Paul (Martin Compston), ragazzo ingenuo e indifeso in cui vede la possibilità di poter costruire un legame padre-figlio.

Prison movie senza connotazioni politiche come si facevano un tempo (o come più di recente Cella 211), Ghosted indugia fastidiosamente sui cliché del genere, dal giovane immediatamente oggetto di maltrattamenti, al cattivo con tendenze omosessuali (un aspetto davvero discutibile e reazionario), al protagonista che è finito in manette a fin di bene e in realtà è un eroe magnanimo. Se poi si aggiunge il non banale dettaglio di una regia piatta e priva di inventiva (ad eccezione di una delle ultime inquadrature, nel momento in cui esplode la violenza), si fatica a capire cosa possa distinguere la mediocrità di Ghosted da quella di una qualunque puntata di un serial come Prison Break. L’esordio di Viveiros è perciò completamente privo di personalità, narrativamente confuso (il colpo di scena finale non è per nulla verosimile) e del tutto privo di conflittualità vere. Giocare per buona parte della vicenda sullo scontro fisico e verbale con il detenuto pederasta, oltre che fastidioso, risulta anche non interessante. Il carcere visto come microcosmo violento e innaturale, e come condizione coatta per la vita di un essere umano, avrebbe potuto essere raccontato meglio in mille altri modi.