Girls

Nuovo fenomeno di costume, la serie della HBO scritta, diretta, prodotta e interpretata da Lena Dunham è davvero l’erede di Sex and the City, anche se qualcuno dice di no.

Flussi seriali – Percorsi e influenze odierne e vintage delle serie americane a cura di Erminio Fischetti

flussi-serialiPartirà domenica prossima su HBO la seconda stagione di Girls, la serie scritta, diretta, prodotta e interpretata dalla giovanissima filmmaker Lena Dunham, che racconta i confusi anni post-college di un gruppo di ragazze a New York. Apprezzato e acclamato, Girls, recentemente candidato a due Golden Globe, è un ritratto molto interessante della classe culturale newyorkese dei giovani dei nostri giorni e si concentra sulla vita di quattro ragazze molto lontane dagli standard economici griffati e patinati a cui ci hanno abituato Carrie & Co. E se molta critica ne scrive insistendo sul fatto che Girls non abbia nulla a che fare con Sex and the City, in realtà non è assolutamente vero. Perché la serie della Dunham è davvero l’erede di Sex and The City tanto che l’autrice prende di petto la situazione e cita volutamente nell’episodio pilota il suo antesignano, ma evidenziandone necessariamente le differenze con la realtà di oggi. Perché il mondo economico è cambiato dagli anni di Clinton e con essi usi e costumi, ed è questo che fotografa la Dunham (classe 1986 e due lungometraggi all’attivo, il secondo dei quali Tiny Fortune ha ricevuto plausi e premi nell’universo cinematografico indie), ma in realtà da un punto di vista meramente sociologico ed espressivo il processo è lo stesso del lavoro di Darren Star. Le scarpe firmate non sono più una priorità, anche perché la maggior parte delle giovani in erba a New York non possono più permettersele. Certo è, poi, che Hannah Horvarth, la protagonista della serie, e le sue amiche non sono magre come chiodi, non vestono griffato, sono goffe e molto poco sicure di sé, sono ragazze come tante, di un fascino (irritante) e imperfetto. Lena Dunham ritrae la generazione borghese figlia della crisi economica, fra stage e lavori non retribuiti, con la difficoltà degli affitti da pagare e tanta confusione in testa, ma con alle spalle genitori che ancora, più o meno, li mantengono. A cominciare dalla sua protagonista Hannah, ragazza di provincia con tatuaggi adolescenziali, grassoccia e un po’ logorroica, e come Carrie zerbino amoroso di un uomo (ragazzino) che dà per scontata la sua presenza, ma a differenza di Mr. Big è senza un soldo e vagamente sociopatico.

E poi, Girls emula di Sex and the City non solo la matrice sociologica, ma anche quella indie della sua prima stagione, il racconto della sfera sessuale e lavorativa, ma è soprattutto New York con la sua gente, la sua vita, i suoi quartieri (in particolare quello di Nolita), i suoi musei, una città che emana involontariamente tutto il suo tessuto artistico. Così come le quattro protagoniste nelle loro differenze sembrano ricalcare le sue antesignane: Hannah è una sorta di Carrie con dieci anni in meno e con un desiderio di diventare scrittrice, in realtà più una velleità adolescenziale che una concreta consapevolezza – sta scrivendo un’autobiografia di se stessa (la rubrica di Carrie non riguardava forse le sue esperienze a Manhattan?) -, che ha una scarsa opinione di se stessa, un’inclinazione alle relazioni masochistiche (il suo ex- ragazzo è gay, mentre quello attuale la sfrutta solo per il sesso), grassa, bruttarella, niente rubriche strapagate o Manolo ai piedi, ma anzi con un gusto eccentrico nel vestire; e poi c’è Jenna, scapestrata, sessualmente disinibita Samantha in erba, ma tristemente sola e con il guizzo di impelagarsi in relazioni sessuali e sentimentali assurde; Marnie, abbarbicata in una relazione da tempo priva di scosse con il suo ragazzo del college, come Charlotte altrettanto rigida e altrettanto irritantemente perfetta, come Miranda pragmatica; finendo con Shoshanna (interpretata da Zosia Mamet, figlia di David Mamet e Lindsay Crouse), una sorta di goffa Charlotte con l’impedimento di una verginità troppo conservata. Così, molti schemi narrativi di Girls sono simili a Sex and the City (non a caso entrambi trasmessi dalla HBO), ma quel che rende più interessante la prima rispetto alla seconda è la verosimiglianza dei suoi personaggi, più “difettosi” come solo il realismo può concedere, ma è soprattutto più figlia dei suoi tempi e della sua generazione, che per la prima volta nell’era industriale deve fare i conti con un regresso di natura economica: proprio quella generazione nata in quegli anni Ottanta di benessere edulcorato e gonfiato, che ha poi portato alla catastrofe attuale. Quelli che sono stati i bambini più viziati e coccolati della Storia hanno avuto un tragico risveglio quando il campo giochi dell’università è finito. D’altronde quante stagiste senza stipendio abbiamo in giro, e invece quante donne in carriera con scarpe da migliaia di dollari ai piedi c’erano negli anni ’90? In Girls tutto è più vero e reale, meno patinato, ma non si può assolutamente dire che non possa essere l’erede o che non abbia nulla in comune con Sex and the City. È una sciocchezza bella e buona. I punti in comune sono molti, troppi a conti fatti, ma l’originalità di Girls sta proprio nell’aver colto questa eredità così tanto rinnegata e averla scardinata dall’interno, con i suoi stessi meccanismi. E poi proprio come con Sex and the City, Girls diventa un nuovo fenomeno di costume, forse un po’ più radical e un po’ meno chic, ma pur sempre ritratto, o meglio immaginario, di un’era. Ma il dubbio, molto cocente, che trapela è proprio l’ostentazione della natura fricchettona, tipica della classe culturale (a cui Lena Dunham, con padre pittore e mamma designer e fotografa, appartiene), che per quanto possa piangere miseria fa parte pur sempre di una schiera di privilegiati e pertanto non troppo universale.