Goodbye Mr Gazzara

04/02/12 - Gran signore dello schermo, l'attore ci lascia a 81 anni. Raro talento tra cinema americano di ricerca anni '70, tv e produzione italiana.

Sguardo sornione, a metà tra lo scherno e l’amaro disincanto verso la vita. Un signore dello schermo, dalle movenze spesso lente e meditative, e al tempo stesso un vero animale da set, pronto a confrontarsi con ogni forma di narrazione, dalle serie televisive all’alto cinema sperimentale americano anni Settanta, dalle produzioni italiane di prima qualità alla serie B nostrana, dal teatro di Broadway a tonfi spaventosi in formato di fallimentare kolossal (Inchon di Terence Young, 1981). Ben Gazzara, a 81 anni, lascia alle sue spalle un lunghissimo percorso artistico, in cui si dischiude, su tutto, l’intensa collaborazione con la factory di John Cassavetes. Solo pochi mesi fa se n’è andato Peter Falk, altro componente di quella felice famiglia artistica, che dette la luce a uno dei frutti più interessanti del cinema underground americano. Figlio di immigrati siciliani, Gazzara crebbe negli anni ’30 e ’40 del Lower East Side di New York, uno dei quartieri all’epoca più rischiosi della metropoli. Per sua stessa ammissione, Gazzara riuscì a tenersi lontano dai condizionamenti criminali della sua sociosfera grazie alla passione per il teatro, che lo portò a prender parte a gruppi giovanili di recitazione e poi a esibirsi a Broadway. In seguito, ottenne un buon ruolo in Anatomia di un omicidio (1959) di Otto Preminger e una grande popolarità per l’originale serie televisiva I giorni di Bryan (1965-68), ma già era avvenuto un primo contatto anche col cinema italiano, chiamato da Mario Monicelli in uno dei ruoli principali di Risate di gioia (1960) al fianco di Totò e Anna Magnani.

In seguito, Gazzara segnò la pagina più felice della sua carriera, diretto negli anni ’70 in tre pietre miliari del cinema di Cassavetes: Mariti (1970), L’assassinio di un allibratore cinese (1976) e La sera della prima (1977), opere solitamente rimontate e tagliate in modo grossolano per la distribuzione italiana, che meritano più di sempre un recupero nella loro versione originale. Al contempo, però, resta fertile il rapporto col nostro cinema, che lo vide confrontarsi con produzioni talvolta povere e di scarso rilievo, ma spesso riscattate dalla sua presenza. Anche nelle occasioni italiane di più alto livello, del resto, avviene più o meno lo stesso: opere come La ragazza di Trieste (1982) e Uno scandalo perbene (1984) di Pasquale Festa Campanile, Figlio mio infinitamente caro (1985) di Valentino Orsini, Il camorrista (1986) di Giuseppe Tornatore sopperiscono spesso alla faciloneria della messinscena tramite l’estrema valorizzazione dell’interprete principale, intorno al quale, specie nel caso de Il camorrista, si sorregge tutta l’impalcatura espressiva. Resta la mirabile eccezione di Storie di ordinaria follia (1981) di Marco Ferreri, ispirato ad alcuni racconti di Charles Bukowski, forse l’unico suo film italiano in cui l’involucro-cinema fosse perfettamente adeguato alla sua portata d’attore. Gazzara si riconfermò attivo e aperto a ogni strada cinematografica anche più avanti, quando ormai si dedicava ai tipici ruoli secondari riservati a grandi attori del passato. Le sue scelte non furono mai banali nemmeno in questo nuovo ambito: lo ritroviamo infatti in coraggiose opere di autori indipendenti come Buffalo ’66 (1997) di Vincent Gallo, Il grande Lebowski (1998) dei fratelli Coen, Happiness (1998) di Todd Solondz, Dogville (2003) di Lars von Trier. Forse non sempre, nella sua lunga carriera, ha scelto liberamente. Di sicuro, però, ne è uscito ogni volta con grande serietà ed eleganza.

MASSIMILIANO SCHIAVONI