Hesher è stato qui

31/01/12 - Joseph Gordon-Levitt torna con un personaggio urticante in una discreta commedia indie diretta da Spencer Susser. Con lui, la Portman.

“La cosa triste è che mi farebbero comodo anche quelli”, rivela Nicole di fronte a un’offerta di 2 miseri dollari. Ed è una frase perfetta per sintetizzare il contesto sociale ed economico in cui è ambientato Hesher è stato qui, il film d’esordio di Spencer Susser che prova a smuovere la patina patetica dai racconti familiari dell’ultimo periodo. Alla base del film infatti c’è la famiglia composta dal piccolo T.J, dal padre e dalla nonna, tutti affranti per la recente scomparsa della mamma: a stravolgere le loro vite ci pensa il debosciato Hesher, che all’improvviso si piazza a casa loro. Una commedia familiare a un passo dal dramma depressivo, scritta dal regista con l’insospettabile David Michod (Animal Kingdom) e Brian Charles Frank, per raccontare il bisogno di reazione dei nostri giorni.

Il film racconta la vita insostenibilmente mesta e sfortunata di un gruppo di personaggi alle prese con un lutto, ma anche con semplici questioni di povertà, come un circolo vizioso dal quale si può uscire solo attraverso l’anarchia, la cattiveria liberatoria, la vitalità rumorosa e maleducata: ossia attraverso il personaggio di Hesher, un metallaro, “un Mary Poppins virato in nero” (come l’ha definito Ilaria Feole su FilmTv) che non fa nulla se non girare sul furgone, riposare e distruggere cose ma ha la forza interiore per non farsi mettere i piedi in testa, per tirare fuori le persone dal loro guscio, dal loro crogiolo di dolore. Tra parabole volgari che sembrano uscite da South Park e vandalismo al suono dei Metallica, Susser colpisce lo spettatore squarciando la retorica compassionevole del lutto con sprazzi di reale cattiveria umoristica; il limite però, avendo scritto Sundance su ogni fotogramma (e da lì viene, in effetti), è che la cattiveria diventa “cattivismo” che prende sul finale le sembianze di una morale della favola. Lo dimostra il finale patetico e lievemente urlato, dal tono melodrammatico e fuori posto, che ridimensiona – come modalità narrativa e sguardo registico – la verve anti-convenzionale; ma la regia, anche se a volte cade, sa stare in bilico tra tragedia e risata, cinismo e pathos e regalare a Joseph Gordon-Levitt un ruolo invidiabile in cui si cala perfettamente. Meno calzante Natalie Portman, che – anche in vesti produttive – comunque sa essere adorabile nelle sue fragilità e debolezze. Ossia quei nèi che nel film diventano bellezza, quando si sa come renderli vitali.

EMANUELE RAUCO

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