Himizu

06/09/11 - Sion Sono porta in concorso a Venezia un survoltato ibrido di generi come d'uso nel recente cinema orientale. Ma tutto è molto goffo e prevedibile.

Dal nostro inviato MASSIMILIANO SCHIAVONI

A volte capitano strani fenomeni al Festival di Venezia. Da anni avamposto della diffusione del cinema orientale in Europa, il Festival può anche cadere nell’equivoco di portare in concorso opere sull’onda dell’emozione del momento, giapponesi, sudcoreane o comunque dell’Estremo Oriente, che alla resa dei conti non meritano poi cotanto onore. E’ successo con Himizu di Sion Sono, che ha raccolto anche notevoli adesioni alla proiezione stampa, ma che appare frutto di una selezione “col bilancino”. Ovvero, non si può dire di no a un film giapponese che tratta, su un piano a metà tra realismo e allegoria, la tragedia di Fukushima. Intenzione nobile sia da parte dell’autore sia dei selezionatori del festival (oltretutto, come confermato dal regista in conferenza stampa, il terremoto ha colpito il Giappone a progetto già iniziato, e Sono ha avvertito la necessità di modificare il tessuto narrativo del film perché riflettesse anche ciò che stava succedendo nel suo paese, specie tra i giovani). Se il film non convince, non è nemmeno per quella mescolanza tra realismo e iperrealismo, che pure è totalmente squilibrata e fuori controllo, ma alla quale il cinema dell’Estremo Oriente ci ha ormai abituati anche con risultati sorprendenti. Si resta poco persuasi, invece, per ragioni sia strettamente tecniche, sia stilistiche.

Primo dato: il film mostra un ottimo lavoro di riprese e montaggio, e al contempo una fotografia pochissimo curata, non imputabile a un’intenzione autoriale. Secondo dato: l’eccesso stilistico fa parte della neo-retorica espressiva orientale, ma in Himizu è ripercorso un po’ meccanicamente, ricalcando la mescolanza postmoderna e survoltata di registri e situazioni narrative. Così, al dramma di due adolescenti vagamente antisociali abbandonati dai rispettivi genitori si mescolano filoni narrativi da noir, tirando in ballo criminali della yakuza, puri di cuore vittime della classica spirale di violenza all’orientale, rapporti umani sempre sul filo dello stalking, struttura da manga (in effetti il film è tratto proprio da uno di questi) e uscite nel grottesco più cinico per i rapporti familiari – nell’universo di Himizu l’amore per i figli è un optional. E a questo si aggiunge un’endemica incapacità di sintesi, che disperde un cospicuo potenziale creativo in un’interminabile mezz’ora di finale. Una narrazione fuori controllo, che rende scarsamente efficace anche il tentativo di discorso allegorico. Alla fine, i dubbi più forti riguardano il suo inserimento in concorso. Il cinema postmoderno orientale si è già guadagnato negli ultimi anni un posto d’onore nelle selezioni ufficiali di Venezia, e gli spetta con tutti i diritti. Ma questo non deve far passare in secondo piano la qualità cinematografica tout court, che dovrebbe comunque essere garantita. Non tutto è oro se luccica a Oriente, potremmo dire. L’abbaglio estetico è dietro l’angolo.