I Lossens Time – The Hour of the Lynx

Il film ci pone di fronte a due registri diversi, quello noir, in cui siamo invitati a scoprire i segreti del passato del protagonista, e quello più intensamente drammatico, che ci spinge a scavare sotto la superficie.

L’ora della lince è la venticinquesima ora, il momento più felice della giornata, quello in cui i problemi e i drammi perdono di consistenza per lasciar posto alla pace. L’ora della lince è quella il cui un prete si riconcilia con la propria idea di fede e un omicida con la propria anima dannata. E’ un puzzle che si va a delineare a poco a poco quello che sottende I lossens time – The Hour of the Lynx, ambizioso noir a sfondo psicanalitico diretto da Sǿren Kragh-Jacobsen. Noir atipico in quanto l’oggetto della ricerca non è un assassino da scoprire o un crimine da risovere, ma l’analisi delle motivazioni che stanno dietro a un gesto improvviso di violenza. Per indagare nella mente disturbata di un giovane, colpevole di un atroce duplice omicidio (un inquietante Frederik Christian Johansen), il regista danese costruisce un’indagine che procede per flashback. La storia del killer si intreccia a quella di due donne: Helen, un ministro del culto in crisi esistenziale, e Lisbeth, una piscologa che tenta di portare avanti uno studio sperimentale sui pazienti dell’ospedale pisichiatrico in cui il ragazzo è rinchiuso.

Tanti gli ingredienti contenuti in I lossens time – The Hour of the Lynx. Ingredienti che vanno a costituire una sovrastruttura complessa applicata a una storia di fondo lineare. L’impressione è che questo edificio narrativo appesantisca il contenuto del film costringendo Sǿren Kragh-Jacobsen a utilizzare con insistenza flashback didascalici per chiarire le ragioni del comportamento del giovane omicida al pubblico. Il plot deriva da una pièce teatrale di Per Olov Enquist e anche nell’adattamento cinematografico, pur con la necessaria ‘esplosione’ della storia, il cuore del film continua a essere rappresentato dai dialoghi tra Helen e il giovane killer o tra Helen e Knud, la comprensiva guardia carceraria che si occupa dei pazienti. Scene, queste, rigorosamente in interni a la dimensione claustrofobica della cella garantisce l’intensità necessaria per colpire lo spettatore. In alternanza Kragh-Jacobsen sfrutta le distese innevate della Svezia, luogo della memoria in cui si trova la casa in cui si consuma il delitto che apre il film, piegando le suggestioni del candido paesaggio alla necessità di imprimere un marchio sulla sua opera, rendendola immediatamente riconoscibile come thriller scandinavo.

L’analisi psicologica che il regista tenta di operare su tutti i personaggi principali risulta più riuscita in figure come Helene e il giovane paziente di cui, a mano a mano che la narrazione avanza, scopriamo le vicissitudini personali, mentre ci lascia un senso di ambiguità il personaggio di Lisbeth, psicologa nevrotica, manipolatrice e fragile al tempo stesso, i cui comportamenti non risultano sempre comprensibili. La sensazione è che il regista aspiri a elevare il tono del suo prodotto infarcendolo di elementi simbolici e innestandovi un sostrato psicanalitico. Il risultato che ne deriva ci pone di fronte a due registri diversi, quello noir, in cui siamo invitati a scoprire i segreti del passato del protagonista, e quello più intensamente drammatico, che ci spinge a scavare sotto la superficie. Non sempre questi due aspetti si fondono come dovrebbero, anzi in alcuni momenti la sensazione è quella di un film che vorrebbe volare più in alto di quanto possa permettersi, ma Sǿren Kragh-Jacobsen riesce comunque a mantenere elevata la tensione riuscendo a non annoiare mai.

Valentina D’Amico per Movieplayer.it Leggi