Il cacciatore di donne

Per narrare la vicenda del serial killer Robert Christian Hansen, Scott Walker confeziona un thriller classico nella forma e lineare nell'andamento.

La cupezza dell’Alaska dei primi anni ’80, che funge da location al thriller Il cacciatore di donne, risucchia nella sua spirale un film che non trova mai respiro. Il regista e sceneggiatore Scott Walker si accosta in maniera traversale a uno dei serial killer più raccapriccianti della storia americana, Robert Christian Hansen, attualmente detenuto nel carcere di Seward, in Alaska dove sta scontando 461 anni per aver rapito, violentato e ucciso a coltellate e colpi d’arma da fuoco diciassette giovani donne. Le pellicole biografiche dedicate ai mostri che hanno occupato per anni le pagine della cronaca nera abbondano. La qualità del risultato finale – si passa da capolavori a opere meno che mediocri – si accompagna alla fascinazione innata verso il male. Si pensi a figure tragiche come quella di Ed Gein, fonte di ispirazione per Norman Bates o Hannibal Lecter, personaggi tanto magnetici quanto raccapriccianti. Questo non è il caso di Robert Hansen. Il ‘Cacciatore di donne’ dell’Alaska è una figura grigia, infima, priva di grandezza nella sua cieca crudeltà. Un mediocre che conduce un’esistenza scialba e persevera nel crimine senza che nessuno lo fermi non perché dotato di astuzia fuori del comune, ma perché favorito dall’asprezza della terra in cui opera andando a caccia di prede umane.

Per narrarne la vicenda, Scott Walker confeziona un thriller classico nella forma e lineare nell’andamento. Il regista sceglie di approcciarsi al suo assassino seriale facendo esplodere il racconto in tre differenti linee narrative. Nel testa a testa tra Hansen (John Cusack) e il poliziotto veterano che gli dà la caccia (la star Nicolas Cage) si innesta la vicenda della prostituta diciassettenne Cindy Paulson, unica tra le prede di Hansen a sfuggire alle sue grinfie. Curiosamente alla giovane sbandata viene dedicata la fetta più consistente di spazio, il che la fa risultare il personaggio più compiuto tra i tre principali. A interpretare l’unica donna in grado di inchiodare Robert Hansen con la sua testimonianza è l’ex stellina di High School Musical Vanessa Hudgens. La scuola Disney non sembra il curriculum più adatto per accostarsi a un ruolo così drammatico perciò la Hudgens fa appello a tutte le sue doti attoriali sporcando la propria immagine e accostandosi al ruolo di baby prostituta con quel mix di sensualità, ingenuità e rassegnazione che conferiscono alla sua Cindy un sottofondo tragico. Le molestie familiari, i problemi di droga, i protettori, il locale di spogliarelli. Scott Walker ci trascina nel sordido sottobosco a luci rosse di Anchorage soffermandosi con insistenza su questa realtà e sacrificando, di conseguenza, gli altri due protagonisti.

John Cusack, nel ruolo di Robert Hansen, appare granitico. La scelta di Scott Walker di rendere partecipe fin dal principio il pubblico della sua colpevolezza non gli lascia scampo. L’attore, attratto sempre più spesso da ruoli borderline, dopo il tomentato Edgar Allan Poe di The Raven e l’assassino sessuomane di The Paperboy, svolge con diligenza il compito assegnatogli calandosi negli scialbi panni di Hansen. Ruolo soffocante in quanto privo di fughe. Dal primo momento in cui lo vediamo, il killer mantiene sempre lo stesso atteggiamento asettico e distaccato sia con le vittime che con la propria famiglia. L’unica occasione in cui lo vediamo reagire in modo rabbioso è nel confronto finale con il poliziotto che gli dà la caccia, uno dei momenti più riusciti del film. Quanto a Nicolas Cage, il suo non è un personaggio realmente esistito, ma è frutto di una sintesi tra i veri agenti di polizia chiamati a indagare sui delitti del cacciatore di donne. Privo, a differenza dei colleghi Cusack e Hudgens, di un modello specifico a cui rifarsi, Cage si rifugia nel mestiere dando vita a un poliziotto da manuale, integerrimo, cocciuto ed empatico.

Il cacciatore di donne si conferma un prodotto solido, ma privo di ambizione. Per evitare sbavature, Scott Walker schiva i rischi confezionando un’opera prima che oscilla tra indagine nel white trash dell’Alaska e thriller procedurale. Il film si risolleva solo nel finale per poi dedicare i commoventi titoli di coda alle vittime di Hansen di cui vengono mostrate in successione le foto. Il rimpianto principale riguarda, però, l’uso delle location. Per mantenere l’equilibro tra le varie componenti, Walker sacrifica le suggestioni derivanti dal selvaggio paesaggio dell’Alaska, fotografato frettolosamente dalle luci plumbee di Patrick Murguia. Senza l’adeguato spazio, la potenza espressiva del luogo viene appiattita. Siamo ben lontani dal fascino e dalle suggestioni di un Insomnia, in cui Christopher Nolan aveva saputo sfruttare il potenziale visivo dell’Alaska in ben altro modo.

Valentina D’Amico per Movieplayer.it Leggi