Italian Graffiti

19/10/10 - L'oro di Napoli (1954) di Vittorio De Sica e il cosidetto “tradimento” del neorealismo...

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Percorsi italiani nella (s)memoria cinematogrfaica collettiva

“L’oro di Napoli” (1954) di Vittorio De Sica: dal neorealismo verso la convenzione, dove uno sguardo cinematografico, a poco a poco, perde se stesso

(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)

italian graffiti19/10/10 – Del cosiddetto “tradimento” del neorealismo di cui fu spesso accusato Vittorio De Sica, e in parte anche il suo più assiduo collaboratore “teorico” Cesare Zavattini, L’oro di Napoli costituisce forse l’esempio più pregnante. Non tanto perché il tradimento fosse poi tale, quanto perché il film mostra un De Sica in movimento, che cerca di svincolarsi dai dettami più rigidi della poetica neorealista in direzione di linguaggi diversi. Il “tradimento”, in realtà, s’incarna nell’emersione sempre più pressante di un’ispirazione che, in forme diverse, aveva sempre fatto parte dell’universo desichiano: la tendenza al melodramma, ai buoni sentimenti e anche al feuilleton lacrimevole. L’evoluzione (o involuzione) di De Sica e Zavattini non fu repentina e improvvisa, ma si delineò come un processo contraddittorio e forse sofferto. Tra gli anni ’50 e i ’60 il De Sica regista alterna infatti opere che in qualche modo tentano di restare in contatto con le pratiche neorealistiche (Umberto D. e Il tetto, soprattutto) ad altre in cui la tendenza al linguaggio convenzionale del tempo, sia esso commedia o melodramma, emerge come ispirazione principale. Sarà il lento ma inarrestabile cedimento di De Sica al gusto internazionale, al divismo, al compiacimento di vastissime platee.

L’oro di Napoli fu una delle prime tappe verso tale percorso. Lo spunto è ancora da neorealismo, così come gli intenti, esposti nella didascalia d’apertura. Tuttavia, del neorealismo tout court resta ben poco. Innanzitutto, l’impianto produttivo è mastodontico, nientemenoché la Ponti-De Laurentiis nei suoi anni più gloriosi. Conseguenti le scelte del cast, che raggruppa divi dell’epoca in grandissimo spolvero. Totò, Sophia Loren, Eduardo De Filippo, lo stesso Vittorio De Sica, e una delle migliori interpretazioni di Silvana Mangano. Non è da neorealismo, in particolare, il metodo. Zavattini sceneggia alcune novelle di Giuseppe Marotta, sapido bozzettista di Napoli che però non disdegna forme discrete di rielaborazione del reale. Così, uno dei segmenti più riusciti è anche il più stonato, quello che suona fuori contesto, “Teresa”, è illuminato da una strepitosa Silvana Mangano, ma alla resa dei conti è un feuilleton artefatto, che del neorealismo conserva solo l’estrazione sociale della protagonista. E non è un caso se, all’uscita del film nelle sale, fu proprio l’episodio più bello, più dolente, più nobile e umano, più “neorealistico” in senso stretto a essere tagliato dal montaggio per ridurre la durata del film e perché ritenuto “troppo triste”. Quel Funeralino (d’altro canto unico episodio a soggetto originale di Zavattini) che resta impresso nella memoria per essenzialità e senso del sacro quotidiano. Il dato più saliente, in ultima analisi, è la trasformazione di uno sguardo, che al momento si mantiene pure fedele a se stesso, ma che, ricollocato in nuovi contesti narrativi, perde i suoi tratti più marcati. Così, la tipica lunga sequenza di pedinamento neorealistico, se condotta in mezzo ai vicoli di Napoli sulle tracce dei divi di turno improvvisatisi pizzaioli, si trasforma in indugio cartolinesco e garbato presepio umoristico. Il De Sica anni ’60 è alle porte.

La teoria del “pernacchio” di don Ersilio Miccio, alias Eduardo De Filippo: