Italian Graffiti

29/03/11 - Riscopriamo Franco Brusati autore appartatissimo che arrivò alla cinquina degli Academy Awards con il film Dimenticare Venezia.

(Italian Graffiti – Percorsi italiani nella (s)memoria cinematografica collettiva a cura di Massimiliano Schiavoni)

C’è un autore italiano che davvero nessuno ricorda più, e che tuttavia nel 1980 arrivò a un passo dall’Oscar per il miglior film straniero. Si tratta di Franco Brusati, autore appartatissimo, poco prolifico e che, un po’ erroneamente, è stato definito uno degli autori “meno italiani” della nostra storia. Il film che lo portò nella cinquina finale dell’Academy è Dimenticare Venezia, una delle sue opere più personali, che venne dopo anni prima come soggettista e sceneggiatore accanto a grandi nomi dell’epoca (Rossellini, Monicelli, Rosi, Lizzani, Castellani, Lattuada…), poi come autore in proprio di sporadica produzione (otto film in tutto in più di trent’anni di attività), infine come autore teatrale. Il suo maggior successo popolare è Pane e cioccolata (1974) con Nino Manfredi, che tuttavia, per conflitti sorti tra autore e attore protagonista, si profila forse come la sua opera più sofferta e progressivamente meno sentita, piegata anche alle esigenze popolari di uno dei colonnelli della commedia all’italiana. Con Dimenticare Venezia, invece, siamo su tutt’altro territorio. Per questo film Brusati fu addirittura definito “il Bergman italiano”, e, per la raffinatezza di personaggi, ambientazioni e letterarietà dell’impianto si ravvisarono anche influenze dell’ultimo Visconti. In realtà, Brusati evoca un mondo molto personale e non solo “di riporto”, nel bene e nel male. Nel bene, nel tratto delicato con cui l’autore fonda un intero racconto filmico su temi intimi e poco fotogenici come memoria, esclusività infantile di un nucleo familiare eterodosso nei confronti del mondo esterno e “agorafobia” verso la vita.

Nel bene, ancora, nel coraggio di affrontare di petto la storia di due coppie gay finalmente indagate non come “categoria sociale”, bensì nel loro rapporto con il tempo, l’età, l’elaborazione del lutto e la difficoltà di trasformarsi in adulti. Con riferimenti non banali all’irriproducibilità biologica di una coppia gay, e conseguente sentimento di infinita nostalgia per il tempo che passa, che porta via con sé, a poco a poco, tutti gli affetti a cui si è legati. In tal senso, il passato si configura come l’unica dimensione in cui vivere, se non si trova lo scatto per amare veramente se stessi e concedersi al mondo. Nel male, perché Brusati, checché ne abbiano voluto dire all’epoca, è italiano al cento per cento, e qui italiano fine anni ’70. Letterario grondante, con annessi dialoghi iper-didascalici e sentenziosi, si concede qualche parentesi magico-onirica che sì fa tanto Bergman, ma in modo goffo e derivativo. Per il resto, a risultare tragicamente italiano anni ’70 è l’impianto visivo, che alterna fotografia calligrafica a inserti rozzi e stonati rispetto alla conclamata raffinatezza d’approccio (una su tutte, la sequenza in cui, per sottolineare l’ansiosa tempestività del momento, uno dei protagonisti schiaccia una gallina con l’auto, con tanto di schizzo di sangue sul vetro della macchina…), con un filo di morbosità compiaciuta che sa tanto di drammetto pretestuoso per far vedere un po’ di cosce (la presenza nel cast di Eleonora Giorgi, che pure dà una delle sue migliori interpretazioni, è un’astutissima mossa di marketing ante litteram). E poi tutto è spiegato, sottolineato, ribadito fino allo spasimo. Cosicché il supposto Bergman passa attraverso la visività nostrana di quegli anni. Per l’appunto, nel bene e nel male.

Il trailer originale del film:
<