Italian Graffiti

06/04/10 - Sulle due fasi della carriera autoriale di De Sica si sono già spesi fiumi di parole...

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Percorsi italiani nella (s)memoria cinematogrfaica collettiva

“Umberto D.” (1952) di Vittorio De Sica: punta più alta del neorealismo desichiano, già proteso verso altre forme espressive

(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)

italian graffiti06/04/10 – Sulle due fasi della carriera autoriale di De Sica si sono già spesi fiumi di parole: neorealismo prima, drammi e commedie stracolmi di convenzioni, sorrisi, lacrime e cartoline pronte per l’esportazione, poi. E puntualmente la seconda fase è stata sempre interpretata come un deludente tradimento della sua prima ispirazione neorealistica. Se, per esser precisi fino in fondo, dovremmo anche non sottomettere a rimozione storica una vera prima fase, che cronologicamente le precede tutte, e cioè il De Sica regista disimpegnato in epoca fascista, d’altra parte non appare nemmeno troppo giusto ricostruire il suo percorso artistico secondo presunti “salti” e sconnessioni. E’ pur vero che da “La ciociara” (1960) in poi De Sica sceglie una strada ben precisa, robusta, populistica, un po’ a buon mercato, sempre più piegata al divismo e ai gusti del grande pubblico, ma, di fatto, il “secondo De Sica” è conseguenza del primo, e già nel primo si rilevano tendenze che presuppongono tali sviluppi. Il neorealismo è sempre stato più un diffuso “sentimento cinematografico” che una vera scuola artistica. Fatta eccezione per Cesare Zavattini, figura unica e a se stante, non è mai esistita una teoria neorealistica, né diktat di estetica come in Unione Sovietica, tanto che le tre punte di diamante del neorealismo italiano (Visconti, Rossellini e De Sica) producono, tra il 1943, anno di “Ossessione” di Luchino Visconti, e il 1955, anno de “Il tetto” dello stesso De Sica, riconosciuto a posteriori come passo di chiusura di una stagione creativa, opere estremamente diverse tra loro, dominate da poetiche dell’immagine che hanno davvero pochissimo in comune. Se si fa eccezione per un generale interesse per questioni e categorie sociali dimenticate dalla storia, dalla cronaca e dal cinema, il linguaggio per immagini dei singoli autori si diversifica immediatamente, pervenendo spesso, per paradosso, a risultati mai troppo “neorealistici” in senso stretto.

umberto-dRossellini, ad esempio, cerca la realtà secondo linee casuali, “spezzate”, mettendo in secondo piano sceneggiatura e allestimento di set. La sua appare una cattura della realtà fuori dalla determinazione di una messinscena preordinata. De Sica, invece, mostra una lettura neorealistica di estremo controllo, visivo e narrativo; nulla è lasciato al caso, e se forse appare il più fedele all’idea del “pedinamento”, tale pedinamento prende forma, tuttavia, secondo linee ben decise, predeterminate, secondo un’idea di convenzionale professionalità. Si pedina il personaggio, ma il personaggio sa bene cosa fare, come muoversi, come comportarsi, non è lasciato all’espressione di una reale e casuale verità. E, soprattutto, emerge una fortissima costruzione drammaturgica, in cui il rimpasto degli eventi narrati è sempre connotato a una resa sentimentale vistosamente ricercata. De Sica non vuol (solo) far riflettere, ma vuol coinvolgere, vuol far entrare in empatia col personaggio. Magari vuole anche commuovere. “Umberto D.” si mostra come l’esempio più alto di tale metodo, in cui la congiunzione di istanza neorealistica e di narrazione emotiva trova il suo massimo compendio. La mano di Zavattini in sede di sceneggiatura è evidente: pedinamento, quotidianità, tendenza al grado zero della narrazione. Ma è altrettanto evidente la mano di De Sica in sede di regia. Tutta la prima mezz’ora mostra il signor Umberto nelle sue azioni quotidiane, nella sua solitudine, nella sua difficoltà ad addormentarsi… Una narrazione piana, che vorrebbe evitare l’enfasi. Ma intanto, però, già in questa prima sezione emerge la cattiveria della padrona di casa, l’indifferenza del mondo verso gli anziani, la bontà della servetta affezionata al protagonista, il tenero rapporto col cagnolino, e soprattutto l’interpretazione del non-professionista Carlo Battisti è tutta improntata a un’imprevedibile (perché non-professionista, per l’appunto) enfasi melodrammatica. Il metodo-De Sica, poi, esplode in tutta la seconda parte, che a poco a poco si delinea come un lacrimoso calvario. Si può restare indifferenti ai tentativi di fare l’elemosina, all’elaborazione del suicidio, a tutta la sequenza finale al parco? E’ pedinamento, è vero; Umberto vaga per la città solo e in cerca di un filo di speranza, ma il suo è un pedinamento condotto secondo un tracciato ben definito, ben costruito, dove la drammaturgia la fa da padrona, a partire dalla scelta di una precisa catena narrativa fino all’uso della colonna sonora. Si veda, ad esempio, la sequenza del tentato suicidio; vi emerge una perizia tecnica non comune, per i tempi, nella resa emotiva del treno che passa a un centimetro da Umberto, nel montaggio alternato fra il treno in arrivo e il cagnolino che sfugge dalle mani del protagonista, salvandogli involontariamente la vita. Strumenti visivi usati con piena consapevolezza per finalità emotive, la cui combinazione è mirata all’empatia e al fremito dello spettatore. Sagacia narrativa, e mai casuale cattura della realtà. Neorealismo, dunque? No, melodramma, semmai. Altissimo e irraggiungibile, il punto di fusione più compiuto tra due istanze ben diverse; il realismo di Zavattini e l’approccio sentimentale di De Sica. Una fusione che permette l’allestimento di un melodramma cupo e asciuttissimo, per questo ancor più lacerante.

Ed esiste, quindi, un primo e un secondo De Sica? Certo, esiste, questo è innegabile. Ma il secondo è già contenuto nel primo, e ampiamente. E, passata l’onda del neorealismo ad ogni costo, probabilmente si è affidato in seguito alla sua vera natura di garbato narratore di buoni, o strazianti, sentimenti.