Italian Graffiti

01/03/11 - "Campo de' Fiori" di Mario Bonnard: timidi cenni neorealisti nel cinema dei telefoni bianchi...

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Percorsi italiani nella (s)memoria cinematogrfaica collettiva

“Campo de’ Fiori” (1943) di Mario Bonnard: timidi cenni proto-neorealistici, ma l’estetica resta da cinema dei telefoni bianchi. Più codice, meno realtà

(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)

italian graffiti01/03/11 – Probabilmente i tocchi anticipatori del neorealismo che spesso si sono ravvisati in Campo de’ Fiori (1943) di Mario Bonnard sono assai inferiori, e meno significativi, di quanto si possa credere. In fin dei conti, qualche timida novità può essere rintracciata soprattutto nel soggetto (alla fase di scrittura partecipò anche Federico Fellini), che mette in scena personaggi e situazioni comunemente rigettati dal canone di cinema brillante e disimpegnato, mondano e galante, tipico dell’epoca dei telefoni bianchi. Cinema, quello, sempre di alto profilo sociale, “lubitschiano” (fermo restando l’abisso che separa la qualità sopraffina del cinema di Lubitsch dalle nostre pallide copie autoctone), lontano da realtà misere e poco fotogeniche per la mentalità del tempo. Per questo il film di Bonnard, in superficie, sembra un po’ alieno a tali codici. La vicenda centrale, infatti, ruota intorno a figure del popolo basso, che animano il mercato della famosa piazza romana, e si avverte una prima emersione dell’italiano dialettale sia come tratto di realismo sia, si badi bene, come mezzo di rappresentazione sociale edulcorata e pittoresca. Questo, forse, ci preme di più sottolineare. Campo de’ Fiori può apparire sì in diacronia un timido tentativo di rottura rispetto ai canoni del tempo, ma in quei canoni ci resta comunque ben saldo e piantato, soprattutto per quanto attiene ai mezzi espressivi strettamente cinematografici.

I protagonisti sono popolani, ma si muovono all’interno di un intreccio appena sbozzato, niente più che un canovaccio d’amore, corteggiamento e illusione assai diffuso nel cinema di allora, e soprattutto totalmente in linea con i dettami estetici e morali dell’epoca (bonarietà dell’italiano, impossibilità di superamento delle barriere sociali, principio d’autorità mai messo in discussione, vittoria dell’amore dei semplici sulla donna immorale, egoista e che non si accontenta del suo status sociale). Ma ancora più sostanziale appare l’adesione agli strumenti di messinscena tipici del cinema di regime: l’opera è quasi totalmente girata in interni, con esterni palesemente ricostruiti in studio, e cadenzata su ritmi fatalmente lunghi e teatrali.

Non si avverte un uso consapevolmente narrativo dello strumento-cinema; spesso il dialogo spiega o addirittura sostituisce l’azione, come si fa in teatro tramite lo strumento del resoconto di azioni avvenute fuori scena. Le inquadrature e le sequenze sono lunghe e spesso lontane da qualsiasi principio di “necessità narrativa”: si vedano a tal proposito il dilungarsi ciarliero sulla ricetta della zuppa di pesce, o gli interminabili dialoghi dal barbiere. Cinema largamente debitore del teatro e della rivista, di cui non a caso inizia a utilizzare gli attori più noti (Aldo Fabrizi, Anna Magnani, Peppino De Filippo…). E che al contempo sposa una retorica vagamente lacrimosa, così da nobilitare la commedia tramite un piccolo e artefatto melodramma. La stessa sequenza d’apertura, tanto decantata come testimonianza di proto-neorealismo, è sì ambientata in mezzo alle grida del mercato, ma segue reiterazioni comiche d’azione molto codificate, quasi da slapstick. Adesione a codice, quindi, non ricerca di realtà. Niente a che vedere con l’esplosiva rottura estetica che di lì a poco rovescerà il nostro cinema.


Due brani del film: la prima parte della bella sequenza iniziale e uno scambio esilarante tra Aldo Fabrizi e Anna Magnani: