La folie Almayer

06/09/11 - Fuori concorso, il bellissimo nuovo film di Chantal Akerman tratto dal primo romanzo di Conrad: un occidentale alla deriva in un sudaticcio sud-est asiatico.

Dal nostro inviato ALESSANDRO ANIBALLI

Tra le più grandi firme del cinema europeo contemporaneo, la cineasta belga Chantal Akerman porta fuori concorso a Venezia 68 il suo nuovo film, La folie Almayer, tratto dal primo romanzo di Joseph Conrad. Mentre la celeberrima rilettura coppoliana di Cuore di tenebra in Apocalypse Now usava Conrad per arrivare al nucleo nero e nichilista di una America votata con la guerra del Vietnam all’implosione morale, la posizione della Akerman è, se possibile, ancora più ampia e parla a tutto l’Occidente, al clamoroso fallimento di una civiltà i cui codici di comportamento appaiono del tutto ridicoli in un altro contesto. Così la parabola del francese Almayer, abbandonato in un’imprecisata landa paludosa del sud-est asiatico, assurge a dimensione paradigmatica di rappresentante dei presunti civilizzatori, in realtà pronti a essere risucchiati dalla forza incontrastata della giungla. L’uomo ha una figlia meticcia, Nina, ed è proprio nel loro rapporto intriso di assoluta incomunicabilità che la Akerman parte per costruire il suo discorso. Una volta fatte le scuole francesi, infatti, Nina avrà imparato cultura e galateo occidentali, ma in compenso avrà sviluppato un totale rifiuto e disprezzo per quel modello che, ascoltando le sue parole sarcastiche, appare effettivamente insensato anche allo spettatore (si pensi, ad esempio, alla necessità di dover camminare con eleganza).

La Akerman poi costruisce il suo film con una mano davvero felice: la regia di La folie Almayer è magnifica, maestosa, potentemente evocativa; ogni movimento di macchina ha sempre un preciso significato espressivo e una esatta valenza allusivo-simbolica. Lo stesso uso dei long take (memorabile l’ultimo che corrisponde alla inquadratura conclusiva) contribuisce a trasmettere una temporalità sfaldata, disfatta, perfettamente in linea con la decadenza morale dei personaggi. Del resto, sin dall’inizio, il povero Almayer appare già moribondo, mentalmente e fisicamente spossato, incapace di reagire nonostante i buoni propositi che ripete periodicamente a se stesso e nonostante la vana speranza di poter vedere un giorno Parigi. Non vi è dubbio: La folie Almayer vale oggi (e varrà ancor di più in futuro) quale spietata autoanalisi di una civiltà come la nostra che sembra aver perduto da tempo la bussola.