L’alba del pianeta…

21/09/11 - Franco divide lo schermo con i primati nel prequel de Il pianeta delle scimmie, che riposiziona l'uomo al posto giusto nella catena evolutiva.

Siamo oramai abituati alla periodiche invasioni, almeno sul grande schermo, di razze superiori provenienti da galassie sconosciute. Questa volta, però, a tentare, con un agile colpo di mano, di prendere il sopravvento sulla razza umana sono i nostri fratelli primati, cui ci lega da sempre un rapporto di amore e odio, per via di quella rassomiglianza un po’ inquietante che ci accomuna. Prequel del celebre cult movie Il pianeta delle scimmie (Franklin J. Schaffner, 1968) con protagonista l’aitante Charlton Heston, L’alba del pianeta delle scimmie mescola, come è d’obbligo, tensioni etiche e fantascienza, ma assesta anche qualche decisivo e sorprendente colpo di scena. A uscirne malconci qui sono soprattutto gli umani, ça va sans dire, vessati dal loro desiderio innato di supremazia nei confronti delle altre specie e all’interno della propria. Che l’unione faccia la forza le scimmie lo sanno molto meglio di noi e questa, sembra indicarci il film, sarà l’arma che ci seppellirà. Elemento scatenante del pandemonio di primati è la geniale scoperta dello scienziato Will Rodman (James Franco): un virus in grado di sostituire le cellule cerebrali danneggiate dall’Alzheimer, che provoca però in soggetti sani un incremento delle capacità intellettive.

La società farmaceutica per cui Will lavora pensa solo ai soldi e poco alla vita delle cavie pelose, le ragioni della determinazione dello scienziato hanno radici personali (il padre malato di Alzheimer, interpretato dal redivivo John Lithgow), la veterinaria è una gran bella ragazza (l’immota Freida Pinto), il vicino di casa un gran rompiscatole. Insomma la prima parte del film pare oberata da un florilegio inarrestabile di cliché, cui è opportuno aggiungere, in questa sede, i serpeggianti pistolotti etici sulle ingiustizie compiute dalla razza umana nei confronti delle altre, nel nome del progresso. Ma espletate le sue doverose funzioni narrative di base, il film di Rupert Wyatt (Prison Escape) inizia gradualmente a propendere per il versante animalesco della storia e, con un colpo di scena pari solo a quello di Psycho, finisce per sostituire il nostro protagonista umano con quello scimmiesco. Sullo scimpazè dopato Cesare, magistralmente interpretato, via motion capture, dal solito Andy Serkis, ricade dunque tutto il peso della seconda parte di questa pellicola, la cui scissione in due tronconi ci appare via via sempre più giusta e funzionale. Naturalmente conviene sospendere l’incredulità in più di un’occasione (si veda la questione delle scimmie parlanti) ma ormai il gioco è fatto e siamo entrati anche noi, proprio come il polimorfico Serkis, sotto la pelle dei primati, ne comprendiamo i taciti dialoghi e soprattutto ne condividiamo la causa. L’evoluzione ci appare poi completa quando il prode Cesare emerge dalle nebbie che avvolgono il Golden Gate (siamo a San Francisco) a dorso di un destriero, lanciato al galoppo verso una civiltà ora evidentemente inferiore: quella umana.

DARIA POMPONIO

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