Mood Indigo – La schiuma dei giorni

Michel Gondry porta sullo schermo il romanzo di culto "La schiuma dei giorni" di Boris Vian, un'opera tra le più acclamate della letteratura francese, che con la sua complessità di linguaggio e di contenuti, fornisce al regista il materiale per tornare ad un progetto che gli consente di dare sfogo alla sua creatività.

Probabilmente nessun regista meglio di Michel Gondry (ma ci avevano già provato Charles Belmont e in versione nipponica Go Riju) era adatto per portare al cinema il romanzo di Boris Vian La schiuma dei giorni, opera datata 1947, vero e proprio romanzo di culto in Francia, caratterizzato da una complessità di suggestioni e di linguaggio tale da renderlo per certi versi infilmabile.
Dopo la parentesi americana con l’improbabile The Green Hornet e l’esperimento di The We & The I, in effetti sembrava che Michel Gondry non vedesse l’ora di tornare al suo cinema visionario fatto di suggestioni oniriche basato sulle pure idee visive per dare sfogo alla sua creatività. La complessità del romanzo di Vian, non solo da un punto di vista di contenuti, immagini e sensazioni, ma anche sotto l’aspetto puramente linguistico e narrativo, rappresentava evidentemente una sfida tanto ardua quanto stimolante per Gondry.
Colin (Romain Duris), giovane e ricco, vive un’esistenza scanzonata nella sua stravagante abitazione di Parigi, in compagnia del suo cuoco tutto fare Nicolas (Omar Sy) e dell’amico squattrinato Chick (Gad Elmaleh), ingegnere appassionato di filosofia. Una sera ad una festa conosce Chloe (Audrey Tautou), i due si innamorano e si sposano. Il loro sembra un destino di felicità, ma all’improvviso durante il viaggio di nozze Chloe si ammala, una ninfea cresce nei suoi polmoni e le impedisce di respirare. Progressivamente la loro vita si trasforma, laddove albergavano gioia e allegria progressivamente si insinuano tristezza e oscurità, Colin accetta i lavori più assurdi per sostenere le cure di Chloe, la loro vita e quelle dei loro amici sembrano sfaldarsi pezzo per pezzo.

Il romanzo di Vian è evidentemente nelle corde di Gondry , con la sua galleria di personaggi e situazioni assurde, e ce ne rendiamo subito conto nel promettente inizio dove il regista senza indugio comincia a dare sfogo alla sua creatività surreale animando gli ambienti e la storia con un luna park di oggetti fantasmagorici che sono un piacere per gli occhi: un pianoforte che mescola cocktail diversi in base alla melodia suonata, un campanello che scorrazza allegramente per casa, uno chef personale che sbuca dal frigo o dal forno proponendo ricette, anguille che scappano dai rubinetti, un topo antropomorfo, cannocchiali che arrivano a sbirciare dentro ogni angolo di Parigi. Non c’è traccia di computer graphics, tutto squisitamente artigianale, gli oggetti prendono vita in stop motion, dallo schermo sembra fuoruscire l’odore dalla colla, sogni fatti di plastilina, cartone e cartapesta. La musica di Duke Ellington a fare da sottofondo, tutto ha un sapore meravigliosamente vintage e le trovate sono sbalorditive.
L’esplorazione del mondo surreale che circonda i protagonisti fatto di oggetti animati e invenzioni strampalate, è però tanto divertente all’inizio, quanto presto diventa stancante nella prosecuzione del film, arrivando ben presto a soffocare la storia, i protagonisti e i loro sentimenti: Gondry è talmente preso dalle sue invenzioni e dall’art direction che si dimentica di creare il pathos e l’empatia coi personaggi, di raccontare la storia, di farci innamorare dei protagonisti così come loro si innamorano l’uno dell’altra, privilegiando la forma a scapito delle emozioni. Il senso di meraviglia provocato dagli oggetti animati e dalle stramberie non regge e non può sostenere il film per tutta la sua durata. Si rimane sorprendentemente freddi davanti a quella che dovrebbe essere “la più dolce e straordinaria di tutte le storie d’amore“.

La Parigi di Vian era riconducibile agli anni ’40, quella di Gondry è ancora più asettica da un punto di vista temporale con riferimenti agli anni ’60 o addirittura ai giorni nostri. La casa grande e luminosa degli inizi progressivamente rimpiccolisce e si deteriora, quasi le pareti fossero tessuto organico, man mano appassisce come i fiori che circondano e tentano inutilmente di curare Chloe: l’ambiente diventa più claustrofobico e anche la fotografia da brillante e luminosa, vira nel finale verso colori plumbei mana mano che le vita si spegne.
Anche in questo caso, al di là delle straordinarie trovate visive che descrivono la metafora degli ambienti che rispecchiano lo stato d’animo dei personaggi, mancano il pathos e il coinvolgimento emotivo: eccessivamente prolisso e ripetitivo nel ribadire i concetti, il film poi indugia su una serie di digressioni collaterali con vari messaggi e sottostorie mai veramente sviluppate (pericolosità del fanatismo e dell’idolatria che portano all’autodistruzione, propaganda contro il falso mito del denaro e del progresso): nel tentativo di inserire tutto il materiale presente nel romanzo, si perde di vista il fulcro del racconto, che è infine soprattutto la storia di un amore e di un a perdita, la parabola che porta dalla gioia dell’innamoramento alla perdita della persona amata.

Pensando ad esempio all’incanto di Se mi lasci ti cancello, dove il dolore e l’angoscia della solitudine derivanti dalla separazione colpivano dritto al cuore, Mood Indigo – La schiuma dei giorni fallisce proprio sul piano dei sentimenti, manca la poesia, manca il contenuto. Non aiuta la versione doppiata che lascia solo intuire l’intento di Gondry di restituire anche la complessità e gli esperimenti linguistici del romanzo, neologismi e giochi di parole che fanno pensare agli Esercizi Di Stile di Raymond Queneau, altro poeta e drammaturgo francese, sostenitore di Vian, che definiva La schiuma dei giorniil più straziante dei romanzi d’amore contemporanei“, ma di questa struggente poesia non rimane molta traccia alla fine dei 125 minuti del film.

Alessandro Antinori per Movieplayer.it Leggi