Nero infinito

Con Nero infinito, Giorgio Bruno esordisce all'insegna del thriller e poliziesco anni '70 e '80. Ma il suo è un pasticcio semi-amatoriale.

Che il mondo spesso segreto e affascinante del cinema di genere del nostro passato sia manna per i cinefili di tutto il mondo è un dato di fatto, ma sono in pochi i registi capaci, se non di rinvigorire, quantomeno di omaggiare degnamente il filone (viene in mente forse solo Puglielli con Occhi di cristallo). Ci prova, animato da grande passione, Giorgio Bruno, regista esordiente di Nero infinito: che dimostra come la sola passione vada bene per una vigorosa pacca sulla spalla, molto meno per realizzare un film dignitoso.
Dora Pelser è una scrittrice di successo e i suoi libri sono tra i best-seller thriller più amati dai lettori, ma nella piccola città meridionale della scrittrice un misterioso e quanto mai sadico serial killer li prende a ispirazione per uccidere, seguendo alla lettera le raccapriccianti descrizioni degli omicidi. Sulla sua identità indagano due poliziotti, l’ispettore capo Elena D’Aquino e l’ispettore Valerio Costa. Scritto dal regista con il supporto del protagonista Rosario Petix, Nero infinito vuole essere l’omaggio e l’affettuosa caricatura dei gialli, thriller e polizieschi che resero popolare il nostro cinema in tutto il mondo, ma oltre a far confusione sull’oggetto da omaggiare, fallisce praticamente in ogni “fondamentale” cinematografico.

Parte poliziottesco, arriva al giallo argentiano e derivati, ma poi sbuca in un territorio torture che sembra più un sussiego alla retriva cinefilia contemporanea: ma tolta la confusione, anche imputabile all’entusiasmo misto con l’inesperienza, è il cinema nei suoi elementi basilari a mancare del tutto, nella scrittura, nella messinscena, nella tecnica di base, nell’atmosfera, lasciando che il film si mostri quasi da subito per ciò che è, ovvero un pasticcio semi-amatoriale, al di sotto di un fan- film.
La sceneggiatura costruisce un intreccio di rara nullità, un giallo con tre personaggi in cui l’assassino si vede alla seconda inquadratura (e comunque lo svelano a metà film) e che riesce pure a farsi sorprendere da errori di scrittura. La regia poi, dimostra di non sapere davvero cosa fare con la macchina da presa (sarebbe meglio dire telecamera, e nemmeno di gran qualità), sbagliando le inquadrature, i raccordi, il montaggio, il suono, annullando ogni atmosfera, già penalizzata e resa improbabile dai deficit tecnici, come ben dimostra la penuria di effetti speciali, con buona pace dei nostri grandi nomi del passato come Stivaletti e De Rossi. Ma il fallimento di Nero infinito non è solo questione di budget, quanto di professionalità e competenza, qui sostanzialmente assenti: e a nulla servono tre cameo come quelli di Fragasso, Deodato e Castellari (il migliore del cast), se poi trovi Francesca Rettondini in occhiali da sole a fare la poliziotta cattiva. Certo c’è la buona fede e la voglia, d’accordo. Ma perché per un film del genere dovrebbero essere sufficienti all’agognato approdo nelle sale, mentre decine di emergenti molto più dotati sguazzano, se va loro bene, nei festival?

EMANUELE RAUCO