On the Job

Per raccontare le sue Filippine, Matti usa uno stile a tinte forti guardando a modelli alti, gangster movie eccellenti come "Il padrino" o come le opere di Scorsese, senza però rinunciare a un retrogusto esotico, all'immediatezza di un cinema povero di mezzi, ma di forte impatto visivo.

Il risveglio del cinema filippino non passa solo attraverso le opere fiume di Lav Diaz o lo sconvolgente realismo di Brillante Mendoza. On the Job di Erik Matti affonda le sue radici nel mainstream, ma il regista ha l’abilità di elevare un prodotto di genere, un thriller poliziesco/carcerario, universalizzandone i contenuti fino a trasformarlo in strumento che racconta con sguardo impietoso la società filippina. Un caotico intreccio di personaggi, suoni e colori investe lo spettatore fin dai primi minuti. La fotografia sbiadita ‘effetto neon’ lo risucchia in un vortice caotico gettandolo nelle strade affollate di Manila, là dove si muove la squadra di killer composta da Tatang (Joel Torre) e dal suo giovane protetto Daniel (Gerald Anderson), due detenuti prelevati sistematicamente dal carcere e usati da un gruppo di potere per eliminare gli oppositori. Di fronte ai loro alibi di ferro la polizia è inerme, impossibilitata a identificare gli assassini o a risalire ai mandanti. Il giovane capo dell’NBI (National Bureau of Investigation) Francis (Piolo Pascual) è stretto in una morsa tra il senso del dovere verso il ruolo che ricopre e gli obblighi familiari. La sua giovane moglie è, infatti, figlia di un importante uomo politico che sostiene l’inquietante Generale Pacheco, aspirante Presidente della Repubblica.

On the Job, ispirato a fatti di cronaca realmente accaduti, scava nei perversi meccanismi del sistema politico delle Filippine, dove il potere è in mano a gruppi paramilitari che bypassano la legge e la polizia con la violenza e ai ricchi faccendieri che posseggono il denaro necessario a comprare coscienze e silenzi. Una volta superato lo scoglio del primo, violento impatto, lo spettatore impara a districarsi nella fitta rete di relazioni che legano i personaggi e può così apprezzare fino in fondo i raffinati meccanismi alla base della pellicola. On the Job si snoda lungo due frenetiche ore durante le quali la tensione non viene mai meno. Il regista confeziona un’opera politica seguendo le regole del thriller, mantenendo elevati suspence e ritmo narrativo e inserendo pause solo là dove realmente necessarie. I confini tra bene e male sono labili in un paese in cui il valore della vita umana si quantifica in denaro. Questa situazione si riflette nel microcosmo riprodotto da Erik Matti con sguardo attento e partecipato.

Per raccontare le sue Filippine, il regista usa uno stile a tinte forti guardando a modelli alti, a gangster movie eccellenti come Il padrino o come le opere di Scorsese, senza però rinunciare a un retrogusto esotico, all’immediatezza di un cinema povero di mezzi, ma di forte impatto visivo. La capacità del regista di gestire una galleria di ambienti sociali diversi, lasciandone trasparire i caratteri essenziali in pochi tratti, è uno dei punti di forza del film. Così, a fronte degli asettici uffici della polizia e dell’eleganza dei piani alti, a spiccare sono soprattutto i luoghi più caratteristici e affollati di Manila, i mercati, l’ospedale, il carcere, l’appartamento fatiscente che Tatang condivide con la moglie e la figlia, aspirante avvocato, ignara del suo via vai dalla prigione. Luoghi che divengono teatro delle scene più intense e significative del film. La fatalistica rassegnazione che accomuna i personaggi, a esclusione del giovane e idealista capo dell’NBI Francis, ben rappresenta il mood di un paese avvezzo alle storture del sistema e incapace di scrollarsi di dosso le tare della giustizia. Per fortuna il bel film di Matti rappresenta una primo atto di ribellione a questo sistema, piegando un’opera commerciale alle esigenze di denuncia.

Valentina D’Amico per Movieplayer.it Leggi