Parola al Cinema – Uno sguardo sulla sceneggiatura
“Parnassus – L’uomo che voleva ingannare il diavolo”: la fantastica prigione di Terry Gilliam, con buona pace della coerenza narrativa
(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)
06/11/09 – “Parnassus”, comè noto, ha dovuto affrontare molte traversie produttive. La morte diHeath Ledger, paradossalmente, ha finito per sovrapporre un ulteriore riflesso a un immaginario filmico che già si muoveva tra dimensioni parallele, in cui vita e morte, realtà e surrealtà appaiono come rovesci interscambiabili dellesistenza umana. Molti degli sconquassi narrativi che la sceneggiatura presenta sono probabilmente imputabili a questo, a una dolorosa fase di riscrittura a cui gli autori hanno dovuto far fronte per non rinunciare al progetto. Tuttavia, Terry Gilliam non è nuovo a certe sfide; sono proverbiali ormai le difficoltà di gran parte delle sue opere (il film su Don Chisciotte, arenatosi molti anni fa, pare stia per ripartire; “I fratelli Grimm” fu realizzato a più riprese, con lunghe pause e notevoli modifiche dei contributi tecnici) ma, più in generale, i suoi film, anche quando realizzati in tutta tranquillità, mostrano spesso una struttura narrativa endemicamente farraginosa, dove la materia pare sfuggire di continuo al controllo creativo dellautore. In più occasioni Gilliam si è confrontato con racconti di difficile collocazione, che mescolano elementi fantasy a riflessioni sulla vita, il racconto filosofico a, talvolta, poco convinte elucubrazioni su apocalissi ecologiche (“Lesercito delle 12 scimmie”). Ma, in sostanza, quando capita che alle sue narrazioni siano sovrapposti piani allegorici di lettura, Gilliam pare non credere neanche per un secondo ai significati del suo cinema. Se gli forniscono sceneggiature che si prendono (troppo?) sul serio, Gilliam fa tutto fuorché prenderle sul serio, e le coglie a ennesima occasione per dare la stura alla sua sfrenata creatività dimmagine. Con il risultato di un cinema-gioia per gli occhi, ma talvolta privo di una vera anima.
“Parnassus” non fa esattamente parte di quel Gilliam. E più sentito, personale e, sia pure trasfigurato in una narrazione di ostentate finzioni, il regista si commuove quasi nel dare a un suo attore molto amato lestremo saluto tramite una fantasticheria cupa e ghignante, come si dà laddio a un tragico giullare daltri tempi. Come spesso in Gilliam, i temi sul tavolo traboccano per generosità. Partendo da uno spunto semplice, da fiaba classica (salvare la bella da una condanna decisa dal padre), Gilliam vi mescola spunti da miti classici come il Faust e romanzi fantasy archetipici come Alice nel paese delle meraviglie, infarcisce il tutto con notazioni sui giochi diabolici del caso, e azzecca, questo sì, la commistione tra mito immortale e squallida modernità (anche se laveva già fatto, e meglio, in “La leggenda del Re Pescatore”), riesumando larchetipo narrativo dell eroe folle perché fuori dal tempo, che alla fine è sempre Don Chisciotte nelle sue infinite reincarnazioni. E, così facendo, solleva questioni non banali sul fascino della non-realtà e del puro istinto, che in ultima analisi vorrebbe tramutarsi, probabilmente, in una riflessione intorno alle ragioni dellarte. Ma Gilliam è come un bambino che ha scoperto il cinema laltroieri e ne è rimasto abbagliato, e vuole giocarci in modo ossessivo finché il giocattolo non si rompe. E al contempo il suo più grande pregio e limite. Se da un lato il suo immaginario puramente cinematografico si riconferma ricchissimo ed entusiasmante, dallaltro è plateale la sua difficoltà di reggere un racconto dallinizio alla fine, di dargli struttura e coerenza, di amare davvero la propria storia e, di conseguenza, farla amare al pubblico. Perché le fiabe siano realmente appassionanti, devono sì trasportarci in una realtà diversa, ma dotata di una sua coerenza interna, fatta di regole magari eccentriche, ma pur sempre regole che strutturano un mondo altro. Sulle prime luniverso di “Parnassus” sembra darsi delle sue regole, che però vengono sconfessate a ogni successiva svolta narrativa, a ogni salto al di là o al di qua dello specchio. E un difetto che ricorre spesso nel suo cinema, così imprigionato nella spinta alla meraviglia visiva da trascurare lequilibrio narrativo, restando perciò sempre al di sotto di una reale compiutezza.
Ed è un vero peccato, perché di autori altrettanto affezionati agli archetipi dellimmaginazione non ce ne sono rimasti molti in giro. La fiaba e il fantasy al cinema ormai sono schiavi dellomologazione creativa, e si reggono su luoghi comuni (anzi, su immagini comuni) che hanno sempre meno a che fare con il prodigio della vera invenzione. Gilliam, invece, si riallaccia sempre a tradizioni e archetipi che fanno parte del nostro comune patrimonio culturale, e li recupera con piena coscienza della loro valenza psichica universale. Purtroppo, però, come i bambini che sognano e al risveglio non sanno raccontare i loro sogni, così Gilliam, eternamente sovreccitato, fantastica a occhi aperti e non trova la misura per raccontare le sue strepitose fantasie.
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