Parola al Cinema

26/02/10 - Pupi Avati, lo dicono in molti, dovrebbe fare meno film. E' uno degli autori più prolifici, forse...

Parola al Cinema – Uno sguardo sulla sceneggiatura

“Il figlio più piccolo”: il film che non inizia mai, e poi finisce

(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)

parola-al-cinema_def26/02/10 – Pupi Avati, lo dicono in molti, dovrebbe fare meno film. E’ uno degli autori più prolifici, forse il più prolifico in assoluto, in attività nel cinema italiano. Il risultato, però, è una riuscita artistica tremendamente altalenante, che produce buone o ottime opere (“Il papà di Giovanna”, “Regalo di Natale”, “Il cuore altrove”, “Storia di ragazzi e ragazze”) ad altre decisamente meno felici. Fa parte di questo secondo Avati “Il figlio più piccolo”, opera nata su un ritorno al presente, sull’esigenza di narrare l’Italia di oggi e le sue storture morali. Ma la rapidità di scrittura cinematografica, spesso si riconverte in affrettatezza, in scarsa cura, e nei casi peggiori in trasandatezza e mancanza di coerenza narrativa. Quando si scrive e si gira moltissimo, e in gran fretta (perché poi?), le sceneggiature si completano in tempi stretti, e si bada molto al sodo, a portare a casa il film, con buona pace della costruzione drammaturgica.

E’ tuttavia da riconoscere ad Avati un approccio naif e marcatamente popolare al fatto-cinema che è in via di sparizione in Italia; le nuove generazioni di autori si presentano spesso come ipercoscienti di sé e del cinema, sanno anche troppo ciò che vogliono raccontare, e rischiano spesso di parlarsi addosso. Avati è ripetitivo, racconta sempre la stessa storia in epoche e contesti diversi, talvolta scivola in grossolane ridicolaggini, ma, in età più che matura, mostra ancora uno sguardo ingenuo quanto quello dei suoi protagonisti. Purtroppo, tale ingenuità è apprezzabile finché non sfocia nella totale trascuratezza di progettualità narrativa (verrebbe quasi da dire in “non-cinema. “Il figlio più piccolo” è esemplare riguardo ai deficit narrativi avatiani. Il soggetto, come sempre, è buono, ma fin dalla definizione dei personaggi l’equilibrio dell’opera traballa pericolosamente. Se il professor Bollino è il meglio narrato, e anche Baldo, sia pure in un’ottica avatiana fin troppo risaputa di purezza a contatto con la corruzione, ha comunque accenti sinceri, il ritratto della madre, affidato a Laura Morante, è impietoso e caricaturale (inciso: apro una raccolta di firme per la liberazione della Morante dal ruolo d’isterica e/o disturbata). Non ha spessore, non suscita né affetto né repulsione, né un vero patetismo, ma accumula solo stereotipi culturali anche piuttosto superati (la madre bambina, fragile e inaffidabile, che rasenta buddismo e new-age… sotto sotto, verso di lei, sibila un giudizio davvero cattivo). E soprattutto è protagonista di grossolani scivoloni di scrittura: lo sbrocco al bar, ad esempio, è davvero infelice. Si sa, il mondo di Avati è prettamente maschile. E’ una scelta narrativa a monte, condivisibile o meno, ma, facendo parte dell’intima poetica di un autore, non se ne può discutere sul piano estetico.

il figlio più piccoloD’altra parte, è pur vero che stavolta manca del tutto la figura del protagonista: Luciano Baietti è narrato al grado zero. Il suo cinismo è dato come assunto iniziale, la sua disperazione è più detta che mostrata, e in certi passaggi sembra ingenuo quanto suo figlio. Alla resa dei conti, il ritratto che ne emerge è di una vittima in mano di altri, manipolato dai suoi tirapiedi e dagli avvocati (quando poi la sua rovina dipende anche da sue precise scelte). Avati si è detto amareggiato del presente, ma nel suo film di rabbia o indignazione se ne avverte davvero poca; domina, anzi, verso il finale, una netta indulgenza verso i suoi mascalzoni, che li riduce a una sorta di “armata Brancaleone” allo sbando e, a suo modo, accattivante. Si veda, in tal senso, la sequenza del ritorno a Bologna di Baietti. I cinici arruffoni, dopo il tracollo finanziario e giudiziario, si mostrano come una bandetta con le pezze al culo, sconfitti e osservati con amabile sguardo (funzionalissimo, in tal senso, è il personaggio di Nazzareno, il simpatico cuoco tuttofare, portatore di una nota di comicità ruffiana e “aggarbante”). E Baietti che, sul terrazzo di casa agli arresti domiciliari, continua a vagheggiare nuovi sogni di gloria, chiude il film su un’ulteriore nota patetica. Non ci pare, insomma, che Avati viva e trasmetta una vera indignazione. Riesce a essere molto amaro, come solo lui sa fare (l’incontro prematrimoniale tra Baldo e l’attempata segretaria Gilberta), ma alla fine racconta ancora una storia di ingenui sconfitti, in cui il cinismo del nodo narrativo principale è costantemente smorzato e annacquato. Senza contare, poi, gli svarioni infelicemente grotteschi su tutti i personaggi secondari: fare la critica di tv e giornalismo, o della cafoneria dei nuovi arricchiti (la seconda moglie di Baietti) tramite gli strumenti bonaccioni di Pupi Avati è davvero fine a se stesso.

Più grave, tuttavia, appare l’endemica debolezza della struttura drammaturgica. Avati spesso si dilunga moltissimo nell’apertura e presentazione della storia, fino a trasformare tale apertura nella quasi totalità dell’opera. Ne “La seconda notte di nozze”, ad esempio, il film finiva quando tutti ci aspettavamo che saremmo entrati finalmente nel merito della storia. In “Il papà di Giovanna”, che resta uno dei suoi film migliori, a una prima parte laboriosissima e pure pedante, seguiva una seconda parte molto affrettata e piuttosto inutile. Ne “Il figlio più piccolo” Avati spende un sacco di scene e dialoghi per tentare di spiegare la complicata situazione giudiziaria in cui si trova il protagonista, accennando a personaggi che sembrano fondamentali per lo sviluppo della storia, ma che non appaiono mai in scena (il genero da piazzare…) e che poi vengono liquidati in due battute. Si tratta di un incipit narrativo molto macchinoso, ai limiti della comprensibilità, di cui, soprattutto, non si capisce la necessità narrativa, visto che poi il nodo drammaturgico fondamentale risiede nel rapporto crudele tra padre e figlio. Una volta, poi, messo in atto il raggiro ai danni di Baldo, la narrazione si disperde totalmente; tutto il faticoso lavoro di definizione dei rapporti di forza nel garbuglio finanziario non sfocia da nessuna parte, e il film segue sviluppi incidentali. Baldo viene di nuovo illuso sfruttando la sua passione per il cinema, poi il processo si chiude in tutta fretta e ritroviamo Baietti raccontato come un poverocristo. E Baldo, come ha fatto a uscirne senza conseguenze penali, o senza un minimo coinvolgimento? Non è un bel segnale quando, alla visione di un film, si ha l’impressione che i fatti salienti della storia non stiano accadendo in scena, ma da tutt’altra parte. Un’altra costante è l’imbarazzo narrativo sulla composizione dei finali. Avati dà spesso l’impressione di non sapere mai come “chiudere”. E finisce per ricorrere a forzosi ricongiungimenti (“Il papà di Giovanna”) o a scelte “medie”, non definite, non significanti, come in questo caso.

Avati, in sostanza, solleva questioni dolorose, ma poi non ha il coraggio di affrontarle e raccontarle davvero. Una sorta di evitamento narrativo elevato all’ennesima potenza, in cui l’evitamento diventa la negazione della possibilità di raccontare davvero una storia. Evitamento fobico, direbbero gli psicologi. Noi siam più buoni, e attribuiamo tutto alla fretta.