Parola al Cinema

02/04/10 - Gabriele Salvatores merita grande rispetto, specialmente nel contesto delle varie povertà...

Parola al Cinema – Uno sguardo sulla sceneggiatura

“Happy Family” di Gabriele Salvatores: riflessioni metanarrative, ma niente di nuovo

(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)

parola-al-cinema_def02/04/10 – Gabriele Salvatores merita grande rispetto, specialmente nel contesto delle varie povertà cinematografiche italiane. Il suo primo cinema era sì ombelicale, piena espressione di “riflusso storico”, ma anche scritto molto bene, piacevole, credibile. Poi, a partire da “Nirvana”, si è aperta una sua seconda fase, più sperimentale, mirata a ricerche di vario tipo sul linguaggio cinematografico e i suoi codici. L’unico in Italia, ma se si fa eccezione per “Io non ho paura”, al momento la sua opera migliore in assoluto proprio per la perfetta combinazione tra classicità di racconto e sperimentazione tecnica, Salvatores ha di volta in volta mostrato una spinta alla ricerca che, però, non si coagula mai in totale riuscita. Se da un lato è ammirevole la poliedricità della sua ricerca (negli ultimi quindici anni ha davvero spaziato tra materiali narrativi dei più eterogenei), dall’altro pare sempre fermarsi un passo prima da uno “sguardo totale” e davvero significante. Ne è prova anche “Happy Family”, riflessione sul ruolo dello sceneggiatore e sugli stessi meccanismi di creazione e narrazione, condotta seguendo le linee di una stilizzazione, narrativa e figurativa, che riecheggia recenti autori americani, quantomeno in tutta la sezione di film nel film (già molti hanno parlato di Wes Anderson, ma anche il Terry Zwigoff di “Ghost World”). Tra fumetto e cartoon, in cui i cliché e le convenzioni sono portate alla massima tensione, fino all’implosione. Tuttavia, i meccanismi sono altrettanto convenzionali e prevedibili.

happy familyNon serve Salvatores (e Alessandro Genovesi, sceneggiatore del film e autore del testo teatrale da cui è tratto) per sapere che la creazione è spesso un atto presuntuoso, generato dal caso e dal capriccio, dalla combinazione di elementi colti al volo dalla realtà, o dalla sublimazione di conflitti e difficoltà individuali. Come lo sceneggiatore Ezio scrive un film “distante” per narrare la sua paura di esprimere i sentimenti, così, pare suggerire Salvatores, lui stesso ha fatto “Happy Family” per sublimare se stesso e il proprio cinema pregresso (Abatantuono e Bentivoglio, riuniti dopo vent’anni, sono di fatto gli stessi personaggi invecchiati dei primi film girati con Salvatores, e anzi si autocitano dichiaratamente; alla resa dei conti la “happy family” con cui Salvatores fa i conti è la sua “famiglia artistica felice” di tutta una carriera, negli attori e nel modo stesso di fare cinema). Quindi ci troviamo di fronte a una mise en abyme su doppio, triplo livello, che denota una grande riflessione teorica a monte del progetto, di rara qualità nel nostro cinema. Tuttavia, la riflessione è castrata poi da soluzioni facili e anche poco “sentite”, come un’intuizione che non sa andare oltre e risalire a una totalità di senso. E, per chiudere in qualche modo, ci si ripiega su rapide e ruffiane trovatine (sono mal digeribili, in quanto pacchiani e spudoratamente didascalici, i finti titoli di coda a metà del film). In più, e più gravemente, Salvatores perde completamente la piacevolezza del racconto. Poiché non è Godard (e nemmeno lo vorrebbe essere, probabilmente), nel suo cinema la sperimentazione si accompagna di solito a vera narrazione, e non sfocia mai in antinarratività. Stavolta, invece, la fusione non si compie, poiché il film nel film è davvero all’osso, stilizzatissimo, ridotto al grado zero della narrazione, quasi scomposto in puri dispositivi e funzioni. Di nuovo, potrebbe essere una precisa scelta di sceneggiatura (trattandosi di una storia in fase di creazione, nella realtà interiore di Ezio le storie e i personaggi prendono forma nella loro struttura più semplice e “atomizzata”).

Ma, è evidente, Salvatores ha voglia anche di essere “piacevole” e così giunge al paradosso di un’opera molto pensata, a suo modo significativa, ma assolutamente irritante nella sua mera fruizione. Insopportabili i leit-motiv comici, ripetuti fino allo spasimo, sulla nonna rimbambita, insostenibili Simon&Garfunkel che ogni due per tre “intrattengono” i carrelli sui personaggi, pesanti gli arbitrii di sceneggiatura (la morte di Bentivoglio dopo la fuga per mare). Che per l’appunto sono arbitrii voluti e ostentati, a sottolineare l’estrema variabilità e labilità dell’ispirazione umana in atto di creazione. Ma che, nel loro insieme, non compongono né una compiuta riflessione autoreferenziale, né un godibile racconto, né un equilibrato compendio tra i due. Nel panorama italiano attuale, Salvatores è l’unico ad aver ambizioni teoriche e semiologiche, e già è un merito. Ma ciò non basta a dare significato universale, e vera compiutezza artistica, al suo film.