Parola al cinema

01/04/11 - Con Sotto il vestito niente – L'ultima sfilata i Vanzina ritornano a un loro classico per un racconto vintage senza identità, neo-televisivo e senz'anima.

(Parola al cinema – Uno sguardo sulla sceneggiatura a cura di Massimiliano Schiavoni)

parola-al-cinema_defDi autori che si autocitano ce ne sono a decine in tutto il mondo, ma che addirittura i Vanzina, da qualche anno, conducano riletture “semiologiche” sui loro testi pregressi è impresa, a suo modo, pure geniale. E, in teoria (solo in teoria), ciò manderebbe in tilt tutto un sistema di stratificazioni postmoderne, visto che, specie sul versante “thrillerino alla buona” (categoria a cui apparteneva l’originale Sotto il vestito niente) i Vanzina già pescavano a piene mani in tessuti narrativi e visivi appartenenti ad altri autori non italiani. Quindi, quest’ultima opera che cos’è? Un omaggio compiuto a se stessi dai Vanzina Brothers e a un loro film che già era un calco da exploitation sul cinema americano dell’epoca. Per risalire alla fonte creativa, ci vorrebbe uno scrupolosissimo analista di palinsesti medievali. Tuttavia, i Vanzina Brothers sono così poco “teorici” e maniacali che non tentano nemmeno di rievocare il loro film. Poteva, anzi, essere un’operazione interessante la rilettura a posteriori di canoni estetici superati e di breve durata (il cinema della Milano da bere, cafonazzo e tirato a lucido come un numero di “Vogue”, a cui i Vanzina dedicarono anche la loro opera-summa Via Montenapoleone), un lavoro di recupero vintage da cinefili un po’ folli, ma forse sarebbe stato necessario uno spirito da esteti di canoni narrativi e figurativi di cui dispongono, magari, i fratelli Coen.

Non i Vanzina. Così, il copione attuale trascura completamente l’originale. Bene, film nuovo, copione nuovo. Il problema sostanziale, e paradossale, però, risiede nel fatto che i Vanzina e Franco Ferrini stavolta non hanno più un cinema di primo livello a cui riferirsi. Se nel 1985 scopiazzavano alla meglio catene narrative alla Brian De Palma, cavandone un dignitoso “gialletto all’italiana”, stavolta non c’è un cinema americano da scimmiottare. E, forse, non c’è nemmeno una finta realtà, a cui l’opinione pubblica crede, com’era la Milano da bere anni ’80. Stavolta, si prova a far da soli. Ma, per l’appunto, il mondo della moda non ha più misteri, una Milano così mistificata non esiste più, e non a caso la scappatoia narrativa s’identifica in un giallo blandamente patologico tutto interno a un nucleo familiare. Che la sceneggiatura sia goffa e in più momenti risibile, è anche inutile sottolinearlo. D’altra parte, lo era anche nell’originale. Ma in un contesto di cinema così spudoratamente di consumo non assume nemmeno un significato di rilievo. Lo assume, invece, la scoperta di un cinema fatto di racconti ormai totalmente privi d’identità. Votati a un non meglio definito “gusto internazionale”, ma che intanto non si permettono nemmeno uno schizzo di sangue, una vera suspense, ciò che in un prodotto di consumo americano non mancherebbe mai. Racconti desiderosi (anche meritoriamente) di ridare spazio al cinema di genere. Ma che si ripiegano su un risaputissimo groviglio di turbe familiari che è quanto di più endemico il cinema italiano di genere abbia partorito come prodotto autoctono originale, da Dario Argento in giù. Non omaggio, né remake, né rievocazione filologica, né gioco cinefilo, né opera originale. In ultima analisi, un “gialletto” neo-televisivo in cui, oltretutto, alla sua prima apparizione s’indovina l’assassino.