Parola al cinema

25/04/09 - Negli anni '70, fino alle soglie degli anni '80, in ambito di critica cinematografica...

Parola al Cinema – Uno sguardo sulla sceneggiatura

“Questione di cuore”: commozioni “carine”

(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)

parola-al-cinema_def25/04/09 – Negli anni ’70, fino alle soglie degli anni ’80, in ambito di critica cinematografica era frequente registrare le difficoltà  dei grandi autori della commedia all`italiana (Risi, Monicelli, Comencini, Scola…) a tenere il passo di un`Italia in mutamento e ad adeguare i loro consueti moduli narrativi a una nuova realtà . In qualche misura, si può avvertire lo stesso disagio adesso negli autori formatisi negli anni ’90, che a distanza di quasi due decenni stentano a orientarsi in un cinema italiano molto cambiato. Francesca Archibugi inizia a essere una di loro, una sorta di “grande classico” in difficoltà  sui tempi, pur con le dovute proporzioni e relativizzazioni storiche. La sua opera prima, “Mignon è partita”, fu una lieta sorpresa nel gracile cinema italiano dei primi anni 90, e nel bene e nel male concorse alla fondazione di una nuova retorica espressiva che nel nostro paese ha dominato per un buon decennio: il cinema “carino”, sottovoce, camera-e-cucina, sempre più intimo e (auto)riflessivo. Nelle sue punte più estreme, quasi solipsistico. Dispiace notare che, in un film per buona parte dedicato proprio al lavoro di scrittura cinematografica (tema, peraltro, assai poco frequentato in cinema), sia esattamente la sceneggiatura il punto più debole, il “peccato originale” che inficia la riuscita di tutta l`opera. E che, incredibilmente, manda in secondo piano il pur ottimo lavoro degli attori; il trio Albanese-Rossi Stuart-Ramazzotti è infatti affiatatissimo, con Albanese e Rossi Stuart fuori dai loro clichè e sprigionanti un caldo senso di amicizia maschile come raramente si vede raccontato al cinema, e Micaela Ramazzotti carica di umanissimo dolore, vera, credibile, emozionante, un modello femminile di passionalità  popolare assolutamente in controtendenza con l`idea di donna imperante nel nostro cinema attuale.

Purtroppo, però, sul piano narrativo “Questione di cuore” ha il fiato cortissimo. Tutta la prima parte soffre molto della derivazione letteraria (alcune battute, specie di Albanese, suonano molto scritte, brutto difetto che ricorre spesso nel cinema italiano tratto da opere di narrativa), ma resta comunque la migliore. Nella seconda parte, invece, il dramma non riesce a trovare una sua compiuta espressione, resta balbettato, confuso, tra tentazioni melodrammatiche e un generale appiattimento di tutti i conflitti. Colpa, soprattutto, di un malinteso senso del pudore verso le emozioni, limite col quale la Archibugi ha sempre dovuto fare i conti nella sua carriera. E` apprezzabile il suo impegno nel cercare forme diverse alle emozioni che non siano i sovratoni e gli eccessi (cosa che le riusciva benissimo, ad esempio, ne “Il grande cocomero”), ma in “Questione di cuore” il topos narrativo scelto è, per sua natura, così melodrammatico (un padre di famiglia che, sapendo di dover morire, cerca di spingere un amico a sostituirlo in famiglia dopo la sua morte) che non si può annientarlo mettendo la sordina a tutto quanto. E soprattutto ricorrendo sistematicamente al montaggio “strategico”, troncando cioè ogni sequenza nel momento in cui il melodramma può prendere il sopravvento. Meccanismo assai frustrante sul piano narrativo e, alla fine, stancante. E poi, perchè annientare il melodramma, che, se fatto bene e con buone prove d`attori, è un genere rispettabilissimo? Ne esce così un film schizoide, che alterna momenti davvero memorabili (la scena delle risate a letto tra Albanese e Rossi Stuart è di rara verità  umana, commovente nella sua semplice verosimiglianza) a una generale mancanza di coerenza, e alla fine di senso ultimo. Non trova, infatti, una sua ragion d`essere nemmeno la riflessione sulla scrittura cinematografica. Albanese, come dicevamo, oltre a parlare per battute, nel ruolo di sceneggiatore scrive in base a intuizioni istantanee su persone incontrate per caso in strada. Emerge, in questo senso, un`idea romantica e posticcia del lavoro di scrittura cinematografica, così come è posticcio il finale, dove si affida alla fantasia il compito di sublimare il dolore della realtà . Per tutta la durata del film i tre personaggi principali fanno sforzi sovrumani per non piangere, per non dare adito a forme drammatiche convenzionali; invece, nella realtà , davanti alle perdite strazianti che la morte ci infligge, ma anche davanti ai grandi dolori che la vita ci riserva, si piange, e anche molto. Si può fare a meno delle lacrime se il progetto cinematografico si regge su un`idea forte di asciuttezza di scrittura e rigore espressivo. La Archibugi, invece, vorrebbe in fondo commuoverci senza “scoprirsi” troppo, restando nel suo cinema “carino”. Ma il carino al limite può farci sorridere. Non può commuoverci.

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