Hates – House at the End of the Street

Un teen-drama mascherato da thriller psicologico, deludente e stereotipato, che non viene salvato dalla presenza di Jennifer Lawrence. In sala dal 23 maggio.

Dopo il divorzio dei genitori, la diciassettenne Elissa lascia Chicago per trasferirsi con la madre in provincia. Ma quello che doveva essere l’inizio di una nuova vita, si trasforma per la ragazza in un’esperienza da incubo, perché dietro l’apparenza placida del sobborgo borghese aleggia l’orrore di un efferato duplice omicidio commesso anni prima, proprio nella casa accanto. Noncurante dei pregiudizi della comunità, Elissa stringe amicizia col coetaneo Ryan, unico abitante della villa del massacro e figlio delle vittime, che le rivela gli agghiaccianti retroscena del crimine. E tra episodi inquietanti, diffidenze e sospetti, Elissa si trova presto immersa in una realtà dai contorni sfumati in cui niente e nessuno è ciò che sembra. O forse lo è? Una sinistra magione, un’adolescente nuova in città e lo spettro di un delitto sanguinoso: sono questi gli elementi alla base di Hates- House at the End of the Street, mediocre thriller psicologico che, sull’onda dell’Oscar ottenuto per la sua interpretazione in Il lato positivo dalla protagonista Jennifer Lawrence arriva anche da noi a un anno dalla sua uscita nelle sale statunitensi. Diretto con stile ammiccante e giovanilista dal britannico Mark Tonderai, alla sua seconda regia, il film è un guazzabuglio di stereotipi e suggestioni che attinge alla tradizione del mystery gotico (nell’ambientazione), all’horror nipponico (attraverso i temi del senso di colpa e del rimosso, e in certi elementi iconografici, che non risparmiano l’immancabile ragazzina con i capelli lunghi davanti al viso) e ai classici del genere (da Il silenzio degli innocenti a Psycho).

Lungi dal fornire un retroterra sul quale costruire una rilettura del filone di riferimento, la molteplicità dei riferimenti assume qui lo spessore grossolano di una coltre volta a dissimulare un teen-drama dei più banali condotto all’insegna di quello che ormai sembra il motto più in voga a Hollywood: “Niente sangue, niente sesso, molte chiacchiere”. In altre parole, a farla da padrone sono i tormenti interiori, i patemi sentimentali, e i rapporti familiari irrisolti, dispiegati schematicamente tra cliché, didascalismi e facili simbologie a scapito di un’atmosfera blandamente evocativa, descritta verbalmente più che rappresentata attraverso il mezzo filmico, mai in grado di incutere tensione, paura o men che meno orrore. E se le colpe spettano in parte alla regia di Tonderai, tutta tesa nel suo ricorso a primi piani, dialoghi e camera a mano addossata ai corpi, a cercare l’introspezione, sottolineando con la vicinanza il dramma privato dei personaggi, le principali responsabilità dell’andatura fiacca di Hates- House at the End of the Street vanno ricercate soprattutto in uno script zeppo di lacune e dinamiche pretestuose, completamente sconnesso nella gestione dei tempi narrativi con un primo colpo di scena liquidato frettolosamente e anzitempo – quel che basta per far perdere interesse verso la storia già entro la prima ora – e un secondo troppo sciocco e prevedibile per essere preso sul serio. Sotto gli standard, infine, perfino la prova di Jennifer Lawrence che – in canottiera bianca ad esaltare il florido decolleté – riesce comunque a risultare convincente in un ruolo, al pari degli altri, privo di carattere e personalità.

CATERINA GANGEMI