L’uomo con i pugni di ferro

Il leader dei Wu-Tang Clan RZA debutta alla regia sotto l'egida di Tarantino con un wu-xia dalle suggestioni pulp e blaxploitation: un pastiche confuso e privo di personalità che non va oltre il mero esercizio di stile.

Spesso non basta la garanzia fornita da due nomi di punta del panorama cinematografico a determinare la riuscita di un film. Neppure se le firme in questione sono quelle di registi di culto e di richiamo come Quentin Tarantino e Eli Roth, ancora una volta sodali stavolta nel patrocinare (in qualità rispettivamente di produttore e co-sceneggiatore) il debutto dietro la macchina da presa di RZA, leader del collettivo hip-hop Wu-Tang Clan. Frutto di una gestazione durata quasi dieci anni e maturata durante le riprese di Kill Bill vol.1 (del quale RZA ha curato la colonna sonora), L’uomo con i pugni di ferro, è infatti uno sconclusionato omaggio al genere wu-xia, nel quale la tangibile passione per la materia di riferimento paga il prezzo di una completa mancanza di dimestichezza col mezzo, che si traduce in un’operazione di maniera sterile e malriuscita. Un difetto di personalità che si riscontra fin dallo stile, quello di un b-movie di lusso (per il budget non propriamente irrisorio e le star coinvolte) nel quale la natura fusion del progetto – regista afroamericano alle prese con la tradizione orientale – offre il pretesto per un mix di pulp, azione e blaxploitation sul solco del pastiche tarantiniano, tanto sovraccarico di citazioni e commistioni quanto incerto nella regia e smorzato nei toni. Dal canto suo, la storia – ambientata in un villaggio della Cina feudale, vede un fabbro fabbricante di armi di origine statunitense coinvolto in una faida tra clan rivali per il possesso di un prezioso carico di lingotti d’oro – attinge al repertorio delle pellicole di arti marziali della Shaw Brothers per costruire il consueto retroterra di mélo, spiritualismo spruzzato di magia, e richiamo ai valori di lealtà, fratellanza e onore.

Fin qui nulla di male, se si esclude la scarsa originalità comunque giustificabile nell’ottica del tributo, perché ciò che grava principalmente su L’uomo con i pugni di ferro è la seriosità di fondo, laddove un paio di tamarrate perlopiù non intenzionali – dall’uso massiccio del ralenti a un bel po’ di efferatezze ben assestate – e una spettacolarità affidata soltanto al rutilante décor, alla violenza iperbolica e alle acrobatiche coreografie dei combattimenti (efficacemente sostenute dal comparto asiatico degli interpreti) non bastano a compensare la completa assenza di humour e la fiacchezza dei dialoghi. Privo di brio anche lo script, al servizio di un racconto statico e zeppo di tempi morti, che riesce nella difficile impresa di risultare al tempo stesso vacuo e ingarbugliato, impiegando oltre un’ora per arrivare allo snodo cruciale su cui regge la trama salvo poi spararsi tutte le cartucce in una parte finale gratuitamente concitata. Sprecato, infine, perfino l’eterogeneo cast multietnico, costretto a fare i conti con la dispersività dell’impianto corale: Pam Grier si concede un cameo, il wrestler David Bautista picchia duro, mentre lo stesso RZA, imbambolato e monocorde in quello che sarebbe dovuto essere il personaggio centrale, si fa rubare la scena da una seducente Lucy Liu in versione maîtresse – alla guida di una parata di sventole con gli occhi a mandorla – e da un simpatico e autoironico Russel Crowe, l’unico pienamente in parte e a suo agio nel ruolo. Il che è tutto dire.

CATERINA GANGEMI