L’uomo d’acciaio

Niente ironia e un'eccessiva insistenza sulle dinamiche cristologiche del personaggio di Superman, per un blockbuster tronfio, ingessato e poco coinvolgente.

Si potrebbe essere indotti a vedere in Zack Snyder – la cui filmografia è composta da L’alba dei morti viventi, 300, Watchmen, Il regno di Ga’Hoole e Sucker Punch – una sorta di rinnovatore di codici e modelli del blockbuster, oltre che ovviamente dell’action. Un regista dotato di un’ambizione visionaria e di un’estetica che tende per sua natura all’eccesso, al sovraccarico. Eppure di fronte al suo nuovo film, L’uomo d’acciaio, si deve certificare l’esatto contrario: Snyder è un semplice restauratore, un semplificatore, che tende a privare il genere blockbuster di elementi che lo possono rendere, come dire, al passo dei tempi: l’ironia, la possibilità di parlare a diversi tipi di pubblico e la lettura socio-politica. Basti guardare, per fare qualche esempio sparso, alla trilogia di Iron Man, ai film di Michael Bay o anche semplicemente a Battleship. Con le pur ovvie differenze nella riuscita dei singoli titoli (in cui eccelle Iron Man 3), in tutti questi esempi vi si possono riconoscere le suddette caratteristiche che invece mancano in maniera eclatante nel cinema di Snyder, tanto eccessivo da risultare spesso ingenuamente elefantiaco (con la notevole eccezione di Watchmen); caratteristiche che emergono in modo ancora più evidente in L’uomo d’acciaio.

Tronfio, grossolano dal punto di vista narrativo e visivo, ingenuamente cristologico e banalmente machista, il nuovo Superman perde il confronto sia con l’ormai collaudata formula del post-moderno consapevole dei film Marvel, sia – naturalmente ancor di più – con la rilettura nichilista e post-apocalittica di Batman operata da Christopher Nolan che qui, come produttore e autore del soggetto, sembra essersi limitato ad apporre la firma. Eppure si intuisce che Snyder (in accordo magari proprio con Nolan) abbia tentato di smuovere le acque, provando a rimescolare vulgata e caratteristiche intrinseche di questo supereroe così difficile da maneggiare tanto che, in assenza di lati oscuri (come invece è Batman) e/o di colpe originarie da espiare (come è ad esempio Spider Man), rimane un personaggio probabilmente incapace di dialogare con la contemporaneità. Ma le soluzioni trovate hanno finito per peggiorare la situazione: più della metà di L’uomo d’acciaio è infatti basata sul fatto che Superman non vuole essere considerato tale e cerca perciò l’anonimato ad ogni costo. Siamo di fronte cioè a un supereroe che rifiuta il ruolo che gli è stato assegnato dal destino e non vuole fare l’unica cosa che sa fare: salvare il prossimo. E, non essendo in grado di verbalizzare questo suo scomodo dilemma amletico, non gli resta che nascondersi tra la folla sperando che da quelle parti non capiti qualche disgrazia o cataclisma. Un altro tentativo di “depistare” le attese dello spettatore arriva dalla costruzione a flashback che fa sì che l’infanzia dell’alieno arrivato dal pianeta Kripton, noto con il nome terrestre di Clark Kent, venga da lui rivissuta in frammenti e rimembranze piazzate ad hoc. Tolta la continuità a quel percorso, si finisce per perdere anche il lato più affascinante della vicenda di Superman, quello della progressiva scoperta dei suoi poteri e della sostanziale assunzione di responsabilità. La terza opzione messa sul piatto da Snyder è relativa all’ampliamento delle vicende avvenute sul pianeta Kripton, in un prologo lunghissimo che però ha almeno il vantaggio di porre all’attenzione un cattivo degno di questo nome, il generale Zod, interpretato da un al solito eccellente Michael Shannon che, prima combatte contro il padre di Superman, incarnato da un saccente e ingombrante Russell Crowe, per finire poi ad affrontare lo stesso supereroe. Zod è in fin dei conti l’unico vero personaggio del film, dilaniato da un vero e doloroso dilemma, quello di essere chiamato a salvare la sua razza – i kriptoniani – trovando a tutti i costi un nuovo pianeta in cui trasferirsi.

Al di là di Shannon, emerge dunque con L’uomo d’acciaio una plateale piattezza discorsiva, in cui i personaggi fungono da semplici vettori, a partire dalla stessa bontà innata di Superman, per passare alla petulanza del suo padre terrestre (Kevin Costner) che gli ripete fino allo sfinimento di non mettere in mostra i suoi superpoteri e per finire con il padre naturale (Russell Crowe per l’appunto) che invece non manca di notare più volte come il ragazzo sia l’eletto. Se poi aggiungiamo che, dopo il fallimentare Brandon Routh in Superman Returns, di nuovo con Henry Cavill si è sbagliato il protagonista – troppo muscoloso e inespressivo – e che la nuova Lois Lane è una Amy Adams decisamente incolore, ecco che la frittata è fatta.

Blockbuster quadrato e tetragono ad ogni possibile rilettura contemporanea, laddove ad esempio il ruolo della giornalista Lois Lane richiedeva magari qualche piccolo aggiornamento (invece nel film i giornalisti hanno un contratto (!), usano come principale fonte d’informazione la TV e non mandano neppure un tweet), L’uomo d’acciaio è la dimostrazione che, bontà loro, a Hollywood capita ancora di sbagliare qualcosa, e che per fortuna, direbbe Billy Wilder, “nessuno è perfetto”. Non è detto però che, vista l’attesa creata, il nuovo Superman non riesca al botteghino (negli USA al primo weekend ha già numeri da record), là dove aveva fallito il recentissimo Superman Returns (2007), e che quindi con i capitoli successivi – magari girati proprio da Nolan – non si riesca a costruire una saga degna di questo nome. Resta certo lo scoglio di una calzamaglia dai colori accesi e decisamente troppo impegnativa, anche e soprattutto dopo Christopher Reeve, ma chissà…

ALESSANDRO ANIBALLI