Dove eravamo rimasti

Facciamo una premessa: ogni tentativo di portare l’opera di Shakespeare al cinema per renderla fruibile alle nuove generazioni, è cosa buona e giusta. Nel caso del Macbeth di Justin Kurzel, i meriti però finiscono qui ed è un peccato: dall’autore del disturbante Snowtown (menzione speciale alla Semaine di Cannes del 2011), era lecito attendersi qualcosina in più. Invece a questa ennesima traduzione cinematografica della tragedia del Bardo manca lo scatto decisivo, la personalità che permette di essere insieme unici e identici, di catturare una scintilla dell’originale per incendiare il proprio fuoco creativo. Il Macbeth di Welles ad esempio, potente come quello letterario però diverso.

L’operazione imbastita da Kurzel è piuttosto scontata: rispettare il dettato shakesperiano nella narrativa e nei dialoghi, cercando semmai una modernità di messa in scena. Un progetto elementare, che per diventare definitivamente pop aveva bisogno del coinvolgimento di due divi internazionali. Ed ecco Michael Fassbender e Marion Cotillard, nei panni del Re omicida e della complice moglie.

Non c’è nulla che non vada in definitiva, ma niente sorprende, niente emoziona, niente resta.

L’esattezza delle plongée zenitali, con cui Kurtzel evoca di continuo un fuoricampo dove congiura il destino, ha ad esempio qualcosa di stucchevole, che dipende certo dall’insistenza con cui ne fa uso, ma anche dalla banalità di una concordanza scolastica.

Per non dire del processo di astrazione che impone su tutta la drammaturgia, la musicalità della composizione scenica, la chiave monologica, tutto esageratamente “videoclippato” e post-postmoderno; le accelerazioni e decelerazioni continue che denotano il Movimento della Storia più che nella storia; la fluidità di certe carrellate, a ricordo di certi ralenti di Wong Kar-wai; il montaggio discontinuo, paradigmatico, configurante un unico flusso di coscienza, di immagini oniriche e di voci sibilate, di piccoli strappi, di vai e vieni temporali lungo l’asse cronologico. Di atmosfere spettrali, di terre e cieli letteralmente colorati di rosso. Rarefazioni alla Refn, senza però quello stesso malessere che preme sulla forma e la informa.

Una versione cupa, funerea, persino suggestiva. Ma finta. Sanguinolenta più che sanguigna. Baraccona più che barocca. Muscolare ma senza attributi.

Troppo compiaciuta per crederci. Che brucia di un fuoco di scena. E lascia volute di fumo negli occhi.

Gianluca Arnone per cinematografo.it