Gone Girl

Una donna (Rosamund Pike) sparisce il giorno del suo quinto anniversario di matrimonio. Principale indiziato: il marito (Ben Affleck).
Fermiamoci qui. Meglio non aggiungere altro sul nuovo film di David Fincher. Titolo italiano dice L’amore bugiardo – meglio però quello americano, Gone Girl, più ambiguo – e non mente: si gioca (fino a un certo punto) a rimpiattino. Colpi di scena, rivelazioni, contorsioni e capovolgimenti appartengono di diritto alla famiglia del thriller, genere di cui Fincher d’altra parte è maestro (Seven, Zodiac).
Eppure questo non è un thriller. Manca la detection e anche la suspense abita altrove.
E’ allora un thriller non riuscito? Non mancherà chi lo considererà così, tra i detrattori un po’ distratti.
La verità, se pure ce n’è una di questo sconcertante architesto della menzogna, è che L’amore bugiardo somiglia a tutto non somigliando a niente nello specifico (nemmeno forse al libro da cui è tratto, quello di Gillian Flynn): un po’ mistery, un po’ comedy, un po’ dramedy.
Solo per rimanere all’interno della filmografia fincheriana: è cupo come Seven, malsano come Zodiac, pomposo come Benjamin Button. Ma è in definitiva il sequel ideale di The Social Network: pure stavolta le metamorfosi del neo capitalismo americano, l’Alien del tardo liberismo (per citare un altro fondamentale tassello della filmografia fincheriana), vengono ricondotte a pulsioni narcisistiche collettive e individuali.
L’intimità è la vera merce del millennio. Le fantasmagorie di un altro Benjamin (non Button, ma il Walter dei Passages) trovano qui un’eco forse involontaria, eppure quasi letterale: il fantasma della donna scomparsa – come quello dell’oggetto, nella cultura del packaging (di cui il film fornisce una rappresentazione “mediatizzata”) – è insieme vuoto e desiderio, solitudine e morbosa attrazione.
Come su fa(k)ebook, così nella vita.

Gianluca Arnone per cinematografo.it