Henry

“La roba non è uno sfizio. E’ un modo di vivere”, scriveva Burroughs con La scimmia sulla schiena. E Alessandro Piva non conferma: il suo Henry pare più uno sfizio. Produttivamente tormentato, e spiace, ma è la versione “ladri” de L’ispettore Coliandro: Roma oggi, la Crescentini rimane invischiata, col naso fumante, nella lotta per lo spaccio di Henry (eroina, nello slang dei pusher afro), con il fidanzato Riondino in galera con l’accusa di duplice omicidio e il poliziotto buono Gioè e quello cattivo Sassanelli a indagare.
There will be blood, ma il sangue che cola non è ferocia iperrealistica né riso grottesco: i punti di sutura sono da cinemino nostro, al netto di battute indovinate nell’enfasi caciarona. Girato in digitale, inframmezzato dai (re)flussi di coscienza in macchina dei protagonisti, Henry si ferma nella terra di nessuno: non sa prendersi sul serio, né battere le piste della lisergica boutade o dell’apologo strafatto. La droga c’è, ma non “stupisce” nessuno, e tocca scontare iperboli (l’iper-dialetto) e inverosimiglianze (l’appartamento aristofreak della Crescentini, semplice trainer…) fastidiose. Insomma, onore alla armi (Piva lo merita), ma qui a girare non è più LaCapa.

Federico Pontiggia per cinematografo.it