Il regno d’inverno – Winter Sleep

Visto dall’alto, sembra un presepe quel villaggio arroccato in Anatolia centrale. Qui Aydin (Haluk Bilginer), vecchio attore ormai ritiratosi dalle scene, gestisce l’Hotel Othello, oltre a possedere gran parte dei terreni circostanti. Si occupa saltuariamente di queste cose però, perché appena possibile si rintana nel suo studio per dedicarsi a ciò che l’appassiona di più. Scrive editoriali per il giornale locale e, soprattutto, vorrebbe finalmente iniziare la stesura di un vecchio progetto, un libro sulla storia del teatro turco. Ma la realtà di tutti i giorni – comprese le discussioni con la sorella Necla (Demet Akbag) o con la giovane moglie Nihal (Melisa Sozen) – incombe, come l’inverno e il conseguente carico di neve.
E’ un cinema che non scende a compromessi, quello di Nuri Bilge Ceylan, trionfatore a Cannes 2014.
E’ un cinema, quello del regista turco, che non concede veramente nulla allo spettacolo (inteso nella sua accezione più banale) e che in quest’occasione travalica anche la temutissima asticella dei 180′ (tre ore e sedici minuti, per l’esattezza): la lotta contro la noia a tratti si fa acerrima, ma è un sacrificio consapevole, sublimato dalle molte, abituali sequenze con cui Ceylan riesce a descrivere, in silenzio, la potenza simbolica di un contesto commovente, rurale, mai scalfito dal passare del tempo.
Paradossalmente, è con la parola, con la staticità di infiniti dialoghi, che il regista di Uzak chiede lo sforzo maggiore allo spettatore. Ma è solo affidandosi ad essa, alla teatralità di argomentazioni a volte futili, a volte necessarie per comprendere la reale natura dei tanti personaggi, che la narrazione procede verso un’apparente risoluzione. Solo nel duro faccia a faccia tra il protagonista e la moglie, ad esempio, capiamo il perché di un rapporto ormai stanco: da una parte Nihal, donna agiata che prova a darsi da fare nel campo della beneficenza, dall’altra il disincatato cinismo di Aydin, che non la ostacola ma che pretende di tenere sotto controllo gli aspetti economici della questione. In ogni confronto, in ogni discussione del film, sembrano nascondersi i prodromi di un cambiamento, l’inizio di nuove traiettorie. Come il paventato ritorno a Istanbul del protagonista, che all’ultimo deciderà invece di non prendere quel treno. Resterà tutto com’era prima (o basterà liberare quel cavallo selvatico per ritrovare un briciolo di umanità?), sepolto dal bianco di una neve che, chissà, prima o poi tornerà a sciogliersi.
Un poetico sonno invernale di massacrante bellezza. Ridestato di tanto in tanto dagli accordi di Max Richter, lo stesso pianoforte di Into The Airport Hallucination, già utilizzata qualche anno fa ad Ari Folman in Valzer con Bashir.

Valerio Sammarco per cinematografo.it