L’esigenza di unirmi ogni volta con te

“La palude è dentro di me”. Il pittore Einar Wegener (Eddie Redmayne) è famoso per i suoi paesaggi oscuri e tormentati. La moglie Gerda (Alicia Vikander), anche lei pittrice, ma ritrattista, non riesce invece a trovare la sua strada verso l’affermazione. E’ da questo curioso preambolo che il regista Tom Hooper (premio Oscar per Il discorso del re) decide di partire per raccontare la storia di una transizione, di un processo di trasformazione reso possibile anche, e soprattutto, grazie ad un amore incondizionato. Sarà per caso, “per gioco”, che la vera natura di Einar (bloccata per chissà quanto in quella “palude”) tornerà in maniera violenta a spingere verso il cambiamento. Sarà proprio grazie a quel “gioco” che, parallelamente, la carriera di Gerda troverà una svolta insperata.

Donna nata in un corpo da uomo, Lili Elbe (questo il nome dell’altra da sé di Einar) ritorna poco a poco a prendere il sopravvento: un paio di calze indossate, una nuova camicia da notte della moglie, Einar/Lili diventa la nuova modella per Gerda. La quale, dopo il divertimento delle prime occasioni, prende coscienza del dramma interiore (e non solo) che sta vivendo il marito. Ambientato tra la fine degli anni ’20 e l’inizio degli anni ’30, tra Copenaghen e Parigi, The Danish Girl (dal romanzo omonimo di David Ebershoff, edito in Italia da Guanda) racconta la vicenda del primo transessuale della storia, tra i primi a sperimentare la riassegnazione di genere attraverso interventi chirurgici. Pittore affermato, Einar Wegener diventò definitivamente Lili Elbe, rinunciando alla sua carriera, consentendo allo stesso tempo il rilancio di quella della moglie.

La regia impeccabile di Tom Hooper e la fotografia di Danny Cohen, l’interpretazione maiuscola del trasformista Eddie Redmayne (fresco di Oscar per La teoria del tutto) e della sempre più brava Alicia Vikander (nel cast anche Amber Heard e Matthias Schoenarts, la prima è un’amica della coppia, il secondo un vecchio amico d’infanzia di Einar) garantiscono all’opera di posizionarsi sin d’ora ai primi posti per la corsa ai prossimi Academy Awards: la “giusta” confezione che mette d’accordo tutti, il modo più elegante per raccontare un argomento indubbiamente delicato e ancora oggi tabù per molti.

La sensazione è però quella che forse si sarebbe potuto osare di più, provare a smarcarsi maggiormente da quel perfetto equilibrio inseguito dalla prima all’ultima sequenza, quasi a voler rimanere anche formalmente sempre in bilico durante le fasi di questa difficile transizione. Un film inattaccabile, insomma, in cui è difficile trovare “crepe” in cui infilarsi per tentare di mescolarsi alla visione. E proprio per questo, forse, facilmente dimenticabile.

Valerio Sammarco per cinematografo.it