Metro Manila

È innegabile come il cinema di Noah Baumbach possieda una sua univocità, una condizione necessaria per assegnare al regista il patentino d’autore. Più che lo stile, sommariamente definito minimalista, conta il bilancio esistenziale e lo sguardo poetico che si mantiene trasmigrando tra i titoli di una corposa filmografia.

Questo impalpabile ma evidente sentimento d’omogeneità è ciò che ci fa dire di ogni suo lavoro: somiglia al precedente. Non sono le storie che racconta. Certo, l’autobiografia è ogni volta l’innesco, ma ci vuole fantasia per accostare la trilogia hipster con Greta Gerwig (da Frances Ha a Mistress America) al plot de Il calamaro e la balena o a questo ultimo riuscito film della maturità The Meyrowitz Stories (secondo titolo Netflix in concorso a Cannes 70).

Stavolta Baumbach sceglie di fare deliberatamente i conti con il proprio background culturale, partendo come altre volte da una famiglia stravagante, i Meyerowitz, di origine ebraica. C’è il pater familias, Harold (Dustin Hoffman), uno scultore idiosincratico e segretamente tormentato dal mancato riconoscimento al proprio lavoro; c’è Maureen (Emma Thompson), la quarta moglie, che ha il vizio del bere, cucina piatti improbabili e che, dietro l’apparenza svampita, sa bene come farsi i fatti suoi; e poi ci sono i tre figli nati da matrimoni differenti: Danny (Adam Sandler) e Jean (Elizabeth Marvel) sono i più grandi e sono fratelli di sangue mentre il minore, Matthew (Ben Stiller), è il fratellastro nonché cocco di papà. Mathew è anche l’unico della famiglia a non aver coltivato ambizioni artistiche (Danny suonava il piano, Jean fa lavori di stampa) e il solo ad aver fatto i soldi occupandosi di finanza. Tra Danny che Matthew non corre buon sangue, o meglio i due non si vedono troppo. Matthew vive a Los Angeles mentre Danny, fresco di divorzio, si è appena trasferito a New York per rivedere il padre e accompagnare la figlia Eliza (Grace Van Patten), aspirante filmaker che si cimenta in soft-porno demenziali, al college.

Il quadro è questo, ma sarebbe meglio dire i quadri, ovvero i capitoli con cui Baumbach scandisce il suo ritratto intergenerazionale di una famiglia ebrea di New York, che ci permettono di capire sempre più e sempre meglio quali siano le dinamiche psicologiche in gioco, le vanità personali, le frustrazioni, le piccole rivendicazioni, i rancori mai sepolti, le debolezze e le vigliaccate. Lo fa stavolta con un’ironia più marcata, una voglia di far decantare i temi di sempre – l’umanità colta nelle fragilità e nei fallimenti, l’impossibile armonia tra le nostre aspirazioni e la vita che ci è data – nella forma spassosa di un witz.

The Meyerowitz Stories è a tutti gli effetti una storiella ebraica in cui manca solo Dio. C’è invece da canone l’ineluttabile assoggettamento ai legami di sangue, anche quelli più problematici; il peso dell’eredità e il senso delle tradizioni; il nonsense con morale a sorpresa.
C’è soprattutto New York, una città che non si finisce mai di inquadrare, con i grattacieli di vetro nati sopra i vecchi edifici che ospitavano le attività di una volta, con le sue secolari comunità prima arroccate in quartieri riconoscibili e ora spinte a vendere e a smammare, sgombrando la memoria (altro tema centrale!) di un paesaggio urbano in perenne cambiamento.

L’altra faccia del witz e del suo sofisticato umorismo è l’esperienza di chi ci ha preceduto, il deposito di senso dei vari destini, sopra i quali posa il nostro, perciò vissuto sempre con un po’ di paura per il domani e con la tenera malinconia di ieri.

Con un cast di magnifici attori, nella sua calma e apparente noncuranza, grazie a una partitura nascosta eppure così complessa, spesso brillante, The Meyerowitz Stories è corale già dal titolo, mentre usa il plurale nella doppia accezione di intreccio di vicende e di comprensibile, paradigmatica ciclicità umana.
Le storie dei Meyero-witz sono anche le nostre.

 

Gianluca Arnone per cinematografo.it