Straight Outta Compton

Un’altra volta a Bobbio. Che non è solo Bobbio, ma il mondo intero. E di nuovo un corpo di donna per allegoria, non più la Bella addormentata ma la Murata Viva. Viva e – attenzione – vivente. L’Italia?
A giudicare dal bel finale di Sangue del mio sangue, onirico e immerso in una luce abbacinante, sembra che a 75 anni Bellocchio abbia scoperto la speranza. I muri che stavolta prende a picconate non crollano sotto il martello della rabbia (non solo), ma di una voglia tutta nuova di liberazione. E di futuro. E ci piace che questo futuro sia donna, mentre i sepolcri imbiancati del vecchio potere crollano –iniziano a crollare – a terra come birilli. La bella addormentata si è desta. Viva l’Italia!

Questo sguardo luminoso è la buona nuova dell’ultima opera del regista piacentino, che pure si rivela meno efficace e controllato di altre volte. Sarà che tra la prima parte – retrodatata al ‘600 e ispirata alla manzoniana Monaca di Monza – e la seconda –  ambientata ai giorni nostri e più simile a uno sketch semiserio di Tototruffa ’62 –  l’affiliazione sia più dichiarata (fin dal titolo) che percepita. Troppo distanti i toni, agli antipodi pure gli esiti espressivi. La malinconica ironia crepuscolare, la forza evocativa del passato, il naturalismo poetico della prima parte, lasciano il posto alla farsa grottesca e miserabile della seconda. Come se la porta girevole del tempo rivelasse con il cambio di registro anche un inequivocabile giudizio sul presente. Perciò sembra di vedere due film diversi, incidentalmente montati insieme.
Certo Bellocchio si premura di indicare le dovute connessioni: in fondo l’incarcerazione della monaca che secondo la santa inquisizione dei maschi avrebbe sedotto un sant’uomo di Chiesa, poi morto suicida (e dannabile), è il peccato che origina il marciume di oggi. Punire l’innocente (il capro espiatorio) per salvare l’onore al potere: da lì si guasta il paese che è venuto poi, dove pulluleranno massoni, parassiti, faccendieri e falsi invalidi. Nemmeno più una cosa seria.

Attorniato dai fedelissimi di sempre – i figli Pier Giorgio ed Elena, il fratello Alberto,  Roberto Herlitzka, Alba Rohrwacher e Filippo Timi, più la sorpresa Lidiya Liberman – Bellocchio torna sul luogo del delitto (la natìa Bobbio) per aggiornare la propria pastorale italiana, fatta di nostalgia canaglia e radici velenose, cattiva coscienza e spauracchi duri a morire, come quello della religione e della vecchia politica democristiana. Il risultato è, come detto, squilibrato, affascinante per lunghi tratti ma con alcune cadute di tono (come l’iperbolico, clownesco ingresso in scena di Timi & Co.).
Il racconto è come sempre infarcito di dati autobiografici (la presenza delle due sorelle recluse, la storia personale dei gemelli, di cui uno suicida, affrontata già da Bellocchio ne Gli occhi, la bocca) e di metafore, con quest’ultime che specie nella seconda parte finiscono per appesantire troppo il racconto (a partire dal vampirismo che ammorba il paese).

Stimolante il confronto con il fantasma del femminile, che Bellocchio rilancia in una chiave diversa rispetto a quella del Regista di matrimoni. La modernità di Sangue del mio sangue non va equivocata: non è un tuffo nel presente (che è un passato che stancamente si trascina) ma un bagno purificatore in acque ancestrali (simboleggiate dal Trebbia).

Gianluca Arnone per cinematografo.it