The Postman’s White Nights

A differenza di quelle dostoevskiane, Le notti bianche del postino sono molto più avare di emozioni. Esistono, ciononostante, alcuni punti in comune: il numero delle notti considerate (quattro), l’illusione dell’amore, l’incapacità del personaggio a distinguere tra realtà e sogno, l’isolamento dal mondo esterno. E il fatto, tutt’altro che secondario, che sia Dostoevsky che Konchalovsky sono russi. Implacabilmente russi: impossibile sondare ed esprimere qualcosa di sé che non abbia anche a che fare con l’animo e il carattere della madre patria.
Così, finito l’esilio negli Stati Uniti, Konchalovsky è tornato a guardare e guardarsi in casa, perseguendo un’idea di cinema senza compromessi, dal taglio semidocumentaristico, insieme intimo ed etnografico. Un procedimento ulteriormente affinato con quest’ultimo lavoro, realizzato nel Nord della Russia, nei villaggi che si trovano tra il territorio del Parco Nazionale di Kenozero e le base missilistiche di Putin. Armato di i-phone e videocamera digitale, sfruttando la sola luce naturale (mirabile il lavoro del direttore alla fotografia Alexandr Simonov) e una tecnica di osservazione minimamente invasiva, Konchalovsky incornicia sul grande schermo il ritratto vivo e vivido di una piccola comunità totalmente isolata dall’esterno, se non fosse per la presenza di un postino (Aleksey Tryapitsyn), unico tramite con le città.
Ed è proprio quest’ultimo il leit motiv della narrazione, con le sue commissioni, i suoi spostamenti, le tazze di té, le premure nei confronti di tutti, le attenzioni rivolte alla più bella del villaggio, verso la quale nutre sogni di conquista e per la quale si occupa del figlioletto. Lyokha, così si chiama il postino, è il custode della comunità, una specie di autorità vicaria sancita dal ruolo che gli compete (è il trait d’union con il mondo delle istituzioni e della burocrazia) e dalla divisa che porta, una mimetica simile a quella indossata dai militari. Le sue giornate scorrono tutte uguali, ma solo in superficie. Inizano ad accadere cose che sembrano senza importanza ma che ne incrinano il paradigma quotidiano: muore una donna del posto, viene tentato da un’altra, gli rubano il motore della barca, inizia ad avere allucinazioni notturne durante la quale vede un misterioso gatto grigio stazionare in camera sua. A poco a poco anche il suo equilibrio interiore inizia a cedere.
Più che narrare, Konchalovsky fa affiorare, lasciando scarti e risvolti nel cono d’ombra del racconto, tra le pieghe di un montaggio – e di un universo – iterativo e apparentemente calmo. Ma per una mano che si ritrae, ce n’è un’altra che con pazienza infila tutte le tessere nel mosaico, solo a tratti rivelato per intero ai nostri occhi: sulla dialettica vicino/lontano (attraverso l’alternanza di primi piani e totali) si innesta quella tra moto e immoto (camera mobile e camera fissa), mentre l’obiettivo della mdp rivela l’oggettivo del cinema, ovvero l’inverso proporzionale tra dettaglio e significato, realtà e verità.
Sono proprio i momenti meno “spontanei” a caricarsi di una rivelazione: un passaggio onirico, un riflesso sull’acqua, la soggettiva di uno sguardo rivolto al cielo (preoccupato come quello di Ethan Hawke in un altro film del concorso, Good Kill), un razzo che parte dai bordi dell’inquadratura, il reprise improvviso di una colonna sonora ansiogena.Elementi che s’infilano nel tessuto etnografico del film, lo infettano, e lo proiettano oltre il realismo: The Postman’s White Nights illumina così un mondo sospeso, di personaggi inquieti e di eventi impalpabili che si sporgono verso un altrove ancora senza faccia. Tutto ciò che dice lo sussurra, indicando becketianamente l’attesa di qualcosa e il senso di minaccia.Un film sottilmente politico, enigmatico come il cielo. Da cui qualcuno forse ci guarda.

Gianluca Arnone per cinematografo.it