Transformers – L’ultimo cavaliere

217 milioni di dollari (dichiarati) di budget. Ora come ora, crediamo, a Hollywood nessuno come Michael Bay è in grado di sfruttarli fino all’ultimo cent per costruire e distruggere all’unisono, per mettere sullo schermo una sceneggiatura così folle come quella partorita da Art Marcum, Matt Holloway, Ken Nolan (con lo zampino di Akiva Goldsman per il soggetto), per realizzare un film che in 149’ ne contiene almeno altri 20.

È come al solito la prova di forza di un cinema che non ha di certo bisogno di queste righe per trovare la soddisfazione che cerca e che, ne siamo convinti, merita anche. Sì, perché al netto di qualsiasi (e più che comprensibile) critica sulla credibilità e sull’impianto narrativo e strutturale che un prodotto simile potrebbe avere, quello che resta è un divertimento puro, amplificato dall’utilizzo di un 3D massivo e spettacolare.

La trama, come detto, mette a dura prova anche le menti più fantasiose: ormai reietti e ricercati dalla TRF (Transformers Reaction Force), i Transformers sono considerati nemici degli uomini, indipendentemente dalla fazione a cui appartengono (Autobot o Decepticon).

L’Autobot Optimus Prime vaga nell’universo in cerca del suo pianeta e del suo creatore, mentre sulla Terra Cade Yeager (Mark Walhberg) continua a mettere in salvo i robottoni, con Bumblebee in prima linea, nascondendosi dalle autorità. Lontano da sua figlia, troverà nella piccola e coraggiosa orfanella Izabella (Isabela Moner) un nuovo membro da inserire in quella sgangherata famiglia.

Ma che cosa spinge i Transformers a ritornare sempre sulla Terra? Il mistero risale ai tempi di Re Artù e ai cavalieri della Tavola Rotonda (sì, ok, vi avevamo avvertiti eh), alla magia di Mago Merlino e ai secoli bui dell’Inghilterra medievale: ora, ai giorni nostri, il mondo è minacciato e l’unica possibilità di salvezza risiede in un’improbabile alleanza. Quella tra Cade, i suoi fidati Transformers, un lord inglese (Anthony Hopkins) e un’avvenente professoressa di Oxford (Laura Haddock)… Perché è proprio nelle antiche radici di quel segreto tramandato e custodito per secoli, che potrebbe trovarsi la chiave di sopravvivenza del nostro pianeta.

Due ore e mezza di delirio ipercinetico e visionario, con flashback che si perdono nell’esplosività sanguinolenta di battaglie medievali e che si alternano a improbabili ma quanto mai adrenalinici inseguimenti a 300 km/h per le strade di metropoli trafficate come Londra o nelle polverose lande desertiche di outback ai confini del mondo: Michael Bay non si ferma di fronte a nulla, è un monster truck che schiaccia ogni cosa con la sua mdp stereoscopica che l’IMAX (supponiamo) esalta ogni oltre immaginazione.

 

Come detto, sembra di assistere a molti più film dentro a un unico film: molto dipende dal continuo spostamento di location e, soprattutto, dalla moltitudine di personaggi (umani e non) chiamati in causa, oltre naturalmente alle impensabili derive che un plot simile poteva generare. E allora, inevitabilmente, ci si ritrova dopo un po’ a domandarsi che fine abbia fatto qualcuno, o come si possa essere arrivati da una sequenza ad un’altra senza un raccordo in grado di garantire quel minimo di verosimiglianza che anche prodotti di questo genere ogni tanto cercano di salvaguardare.

Ma sono momenti che durano giusto il tempo di un attimo, quella manciata di secondi qua e là che servono al film per rifiatare tra un combattimento-inseguimento-esplosione-sferragliamento e un altro. Perché laddove non arriva la verosimiglianza ci pensano il sarcasmo e l’ironia: in questo, la parte da padrone la fa l’automa-maggiordomo Cogman, delirante sociopatico e schizofrenico tuttofare al servizio del personaggio di Anthony Hopkins che, da solo, incarna perfettamente l’anima trasformistica dell’intero film.

Nulla si crea, nulla si distrugge: tutto si trasforma.

E già c’è chi (l’inquietante, bellissima Quintessa) si aggira per l’incipit del sesto capitolo…

Valerio Sammarco per cinematografo.it