The Lone Ranger

Verbinski, Bruckheimer e Depp si spostano dai Caraibi alle praterie del West per continuare la loro rilettura del cinema e della storia come puro entertainment, quasi attrazione da baraccone. La lunghezza però si fa sentire...

Il gioco cinematografico di Jerry Bruckheimer è noto da tempo. Produttore negli anni 2000 di saghe come Il mistero dei templari e I pirati dei caraibi, Bruckheimer – caso raro tra i mogul odierni – può vantare una sua certa autorialità, in cui si tengono insieme concezione grossolana del cinema con l’immediata efficacia spettacolare, laddove la ri-scrittura di generi come l’adventure è fatta secondo una concezione che tende a far coincidere post-moderno e mondo delle fiere e dove la Storia entra in una dimensione giocosa, vorticosa e continuamente “riscrivibile”, in ossequio ai dettami del vaudeville. Un po’ come Buffalo Bill e la sua carriera circense…
In tal senso pare particolarmente azzeccata per la filmografia di Bruckheimer la scelta di mettere in scena The Lone Ranger, un classico della cultura popolare americana – prima show radiofonico negli anni Trenta, poi fumetto, quindi serie televisiva – in cui il western è per l’appunto privo di qualsiasi connotazione, sia essa classico-propagandistica (l’epopea del West), sia essa figlia della controcultura (la rilettura anni Settanta, cioè tutto quel che si può comodamente identificare in Piccolo grande uomo), sia infine legata a riletture neopacifiste o, al contrario, primitiviste e dunque iper-violente.

The Lone Ranger, al contrario, è un enorme giocattolone Disney, in cui lo spettacolo e l’intrattenimento occupano un posto esclusivo: non è un caso che il film venga raccontato a un bambino che, visitando una fiera, si ritrova in un capannone in cui vengono rimesse in scena – sotto forma di maschere di cera – le figure archetipiche del West, a partire dagli Indiani, e che sia proprio un vecchissimo indiano – mezzo imbalsamato, sorta di versante parodico del Dustin Hoffman di Piccolo grande uomo – a prendere vita e a raccontargli la storia del film. Quell’indiano è interpretato Johnny Depp, ormai maschera ufficiale del grottesco edulcorato di marca bruckheimeriana, e firmato ancora una volta da Gore Verbinski, lo stesso autore della saga di I pirati dei caraibi.

I problemi però non mancano: il primo è relativo al protagonista, ruolo che tecnicamente non spetta a Johnny Depp quanto al suo compagno di ventura, tal Armie Hammer che interpreta il suddetto cavaliere solitario, eroe imberbe e senza lati oscuri, armato di una ridicola mascherina, figlia per l’appunto dello show televisivo d’annata. Avvocato di belle speranze, di fronte alla morte del fratello, il ragazzo – secondo un classico dell’epica americana – cerca di farsi giustizia da sé e trova appoggio nell’indiano Tonto, interpretato per l’appunto da Depp, anche lui sradicato dalla sua famiglia-tribù. Siamo, in effetti, quasi nel campo del buddy-movie, dove però è la spalla Depp a funzionare meglio, e forse sarebbe interessante cercare di confrontare queste dinamiche con quelle di Django Unchained, di cui The Lone Ranger potrebbe essere considerato una versione inoffensiva e per certi aspetti “reazionaria” (il percorso di acquisizione di coscienza pertiene al ranger bianco e non allo schiavo afro-americano).

Ma la malriuscita di The Lone Ranger si fa più grave in una lunghezza decisamente eccessiva rispetto al materiale da raccontare: 149 minuti non sono sostenuti da una scrittura, costretta continuamente a ricorrere a colpi di scena e a giravolte tra i personaggi, in particolare tra i due protagonisti, fin quasi allo sfinimento. Lo stesso costante riferimento allo spaghetti-western – il più evidente del film, come del resto per quello di Tarantino – è percorso secondo fini meramente iconici: dai richiami musicali figli di Morricone a sospensioni visive che emulano i topoi classici di Sergio Leone (la casa isolata presa d’assalto, il ponte fatto saltare in aria, la ferrovia in costruzione, un po’ C’era una volta il West, un po’ Il buono, il brutto, il cattivo). Tra le mani restano un paio di eccellenti scene d’azione – l’inizio e la fine, sempre a bordo di un treno – e poco altro. Con il suo film potenzialmente più teorico, Bruckheimer forse ci dimostra involontariamente che la sua idea di cinema è inesorabilmente datata, superata da un lato dalle formule ormai consolidate del blockbuster d’autore (non solo e non tanto Tarantino, ma anche il Batman di Nolan o lo Star Trek di Abrams) e dall’altro da blockbuster meno pretenziosi, come quelli action-muscolari alla Fast & Furious, roba che non invecchia mai…

ALESSANDRO ANIBALLI