RoboCop

Il brasiliano José Padilha, autore di "Tropa de elite", dirige il remake di "RoboCop" con una discreta vena per le scene action, ma perdendo per strada quasi tutta la portata satirica dell'originale del 1987 di Verhoeven.

Non poteva che essere affidato a José Padilha il remake di RoboCop. Il regista brasiliano, che ha diretto Tropa de elite – Gli squadroni della morte e Tropa de elite – Il nemico è un altro, deve essere apparso – come dire – specializzato nella descrizione della disumanità della polizia, con tutte le conseguenze – anche tecnologiche – del caso che il termine dis-umano porta con sé. Difficile però fare i conti con il classico satirico – e a tratti eversivo – di Paul Verhoeven. Quest’ultimo inoltre, diretto nel 1987, faceva i conti con l’epoca reaganiana e, attraverso la figura del superpoliziotto invincibile e incorruttibile, ne rispecchiava in maniera sottilmente sarcastica i rigidi furori da tolleranza zero. Oggi, in epoca obamiama, il RoboCop di Padilha appare piuttosto un esercizio di stile e non perché i problemi della società americana siano risolti, quanto perché sono diversi da allora.

La satira poliziottesca
Perciò, a fronte del Robocop di Verhoeven in cui il sarcasmo innervava tutta la pellicola, il nuovo film dedicato al celebre robot-poliziotto mette dei precisi paletti alla satira, relegandoli a qualche intermezzo affidato alla faccia e al corpo di Samuel L. Jackson. Come nel film dell’87, infatti, si fa ampio uso in questo nuovo lavoro dell’intermezzo televisivo, attraverso cui commentare le imprese di RoboCop e quelle della multinazionale che condiziona la vita della polizia e costruisce robot. Ma qui, in maniera più precisa, il personaggio di Samuel L. Jackson interpreta un conduttore televisivo che è anche opinion maker e che evidentemente è sul libro paga della Omnicorp, l’azienda che produce robot e che ha tutto l’interesse perché si espanda la possibilità di vendere i loro prodotti. Ottimo e ben al passo coi tempi appare infatti l’incipit per le strade di una Teheran invasa dai robottoni americani; il sarcasmo sul “portare la democrazia” all’estero è in questo caso perfettamente indirizzato. Ma è come se Padilha avesse deciso di dedicare solo a questi intermezzi lo spazio relativo al discorso politico, mentre per il resto il film appare decisamente più tradizionale – e molto meno coraggioso della pellicola di Verhoeven – con la classica storia del protagonista che è oggetto di una serie di angherie, risolte nel momento in cui uccide il gran cattivone. Ultimo e fondamentale elemento di satira eliminato nel nuovo RoboCop è il fatto che la polizia non sia più una forza privatizzata, ma “solo” condizionata dalla multinazionale. Lo scarto di senso, se si vuole, è molto netto e descrive un mondo di fantascienza molto meno distopico di quanto non fosse quello del 1987 (anni in cui le privatizzazioni invadevano ogni livello della società).

Il familismo del nuovo Robocop
Altro elemento di debolezza del nuovo RoboCop appare il suo eccessivo “familismo”. Laddove infatti nel film del 1987 il robot poliziotto ritrovava complicità solo con la sua collega, presente al momento della sua morte umana, qui si ha un continuo dialogo – interrotto e poi ripreso – con la moglie e il figlio, un confronto costante che ha il difetto di far arrotolare a tratti la storia su se stessa. Infatti il RoboCop di Padilha non è un robot che pian piano riprende coscienza della sua umanità, quanto un robot consapevole sin troppo della sua umanità che gli viene tolta man mano – per renderlo più efficiente in battaglia – e che riesce a riacquisire con la forza di volontà. Un passaggio logico-narrativo che appare forse troppo tortuoso e che infatti comporta tutta una serie di ribaltamenti narrativi, in cui non è coinvolta solo la famiglia di RoboCop ma anche il medico che gli ridà vita e lo cura – il suo dottor Frankenstein. Questi, interpretato da Gary Oldman, ama e teme la sua creazione cambiando idea troppe volte sul suo destino.

Il cast, l’action e il libero arbitrio
José Padilha non è però l’ultimo degli sprovveduti, tutt’altro. Perciò il suo RoboCop non può essere semplicemente liquidato come un tentativo fallito. Non tutto funziona, è vero, ma qualcosa sì. Funzionano, ad esempio, la regia delle scene d’azione (e non poteva essere altrimenti se ci si ricorda di Tropa de elite) e il cast, con particolare riferimento alle figure di Samuel L. Jackson, Gary Oldman e del redivivo Michael Keaton nei panni del cattivo. Bene anche tutta la parte iniziale del film, giocata sulla drammatica scoperta del destino del protagonista, e il discorso di fondo sul libero arbitrio, secondo cui sostanzialmente RoboCop non è libero di fare ciò che vuole perché continuamente monitorato a distanza tanto che, se necessario, può essere spento in qualsiasi momento. Ed è forse proprio il discorso sul libero arbitrio – la scelta di come comportarsi con i criminali e di come relazionarsi con il prossimo – l’unico vero elemento di novità di questo RoboCop rispetto all’originale e che conferisce, nonostante tutto, una discreta forza al nuovo film di Padilha.

Alessandro Aniballi per Movieplayer.it Leggi