Romanticismi hongkonghesi

04/05/11 - Dopo l'action, al Far East Film torna un altro genere molto diffuso nell'ex colonia britannica: la commedia sentimentale.

Dal nostro inviato ALESSANDRO ANIBALLI

Probabilmente la più grande cinematografia “morente” del cinema contemporaneo è quella hongkonghese, ormai in crisi di incassi e finanziamenti da anni, non più precisamente indipendente da quando l’isola è ridiventata territorio cinese nel 1997 e, però, capace a tratti di risollevarsi con improvvisi guizzi, dovuti a una professionalità e a una autorialità tanto consolidate che non potevano estinguersi con un sol colpo. Per entrare invece nello specifico dei generi cinematografici, va notato come nell’ex colonia britannica l’action sia capace di resistere meglio della commedia mantenendo necessità del racconto e personalità dello sguardo. La sostanziale “futilità” della nuova commedia sentimentale hongkonghese è ben testimoniata da due film passati alla 13/a edizione del Far East Film, Dont’ Go Breaking My Heart di Johnnie To e Lover’s Discourse di Derek Tsang e Jimmy Wan.

Johnnie To è un cineasta ormai assurto agli onori dell’autorialità internazionale grazie ai suoi film action, da PTU (2003) a Breaking News (2004) fino a Vengeance (2009) con Johnny Hallyday. Ma To è un regista che normalmente mette in scena una concezione quasi “postuma” dei film d’azione, dove l’elemento ironico è fondante; in tal senso il musical-action Sparrow (2008) è forse il film che meglio rappresenta il suo percorso più recente. Di conseguenza, il misurarsi con la commedia è per To un approdo naturale, un terreno che il regista ha sondato già più volte in passato. Quel che però lascia sempre incerti di fronte ai suoi prodotti più leggeri – e a questo Don’t Go Breaking My Heart in particolare – è una sensazione diffusa di superficialità spicciola, di puro gioco fine a se stesso. E se la cosa potrebbe avere pure un senso nel momento in cui si decide di riflettere sui meccanismi stessi della commedia romantica (lui, lei e l’altro fino alle estreme conseguenze), lo perde però nel momento in cui Don’t Go Breaking My Heart si palesa come pura operazione commerciale di conquista del mercato della Cina continentale. Da un lato l’utilizzo di un’attrice del continente come protagonista (Gao Yuanyuan), dall’altro il rapido viaggio da Hong Kong a Suzhou (dove si conclude il film), sono degli indizi precisi di una volontà espansionista. E su tutto aleggia uno spudorato elogio del consumismo neo-capitalista che passa indenne di fronte alla crisi globale e usa uno dei suoi personaggi, un architetto, per esportare l’architettura hi-tech nella Cina continentale. L’intento è chiaro: non è To che va alla montagna (le ricche produzioni della Cina continentale), ma è la montagna (il gigantesco mercato cinese) che andrà da To. È questa un’interessante contromossa del regista e produttore più influente nella Hong Kong odierna: invece di disperdere le professionalità locali, usarle per conquistare altri mercati. Come andrà a finire è tutto da vedere, ma per ora si può dire che è significativo che questa operazione sia portata avanti attraverso una commedia sentimentale stucchevole e mielosa: le storie d’amore valgono sempre da passepartout.

Non troppo diversamente funziona il discorso per Lover’s Discourse che non è propriamente una commedia – forse lo si potrebbe definire un comic-drama sentimentale – ma che allo stesso modo di Johnnie To esalta una futilità assoluta del racconto, un puro compiacersi delle meccaniche sentimentali anche a scapito della coerenza dei personaggi. Se la violenza dei film d’azione serve ai cineasti hongkonghesi per mostrare (e smascherare) l’innaturale condizione di una città sovraffollata e follemente lanciata verso un continuo sviluppo, la commedia dà invece l’idea di aderire ai meccanismi neo-consumistici illudendosi di poter e voler rimuovere completamente le dinamiche sociali. Per dirla in altri termini, il cinema leggero hongkonghese degli ultimi anni (e questi due film in particolare) si pasce di una autoreferenzialità assoluta, quasi da telefoni bianchi. E quel che si rischia di perdere con questo tipo di operazioni rivolte a tutto il mercato asiatico o a buona parte di esso è l’identità, lo specifico di un luogo, il locale a favore del globale.