Schizofrenie cinesi a Udine

30/04/2011 - Al festival friulano, l'Impero Celeste raccontato dal comico Welcome to Shama Town e dal wuxia The Lost Bladesman.

Dal nostro inviato ALESSANDRO ANIBALLI

Si è aperta ufficialmente la 13/a edizione del Far East Film, festival friulano dedicato al cinema dell’Estremo Oriente, che da quest’anno assegnerà al film scelto dal pubblico un premio con un nuovo nome: il Gelso d’Oro perché, pur caratteristico del paesaggio del Friuli, l’albero del gelso è originario dell’Asia e dunque è stato scelto come simbolo dell’incontro tra la cultura occidentale e quella orientale.

Più che dall’incontro culturale, è caratterizzato invece da un cortocircuito di riferimenti il film che ha inaugurato il festival, il cinese Welcome to Shama Town. Il regista esordiente Li Weiran mette in scena un folle scontro di personaggi calato nel contesto di un piccolo villaggio (Shama Town per l’appunto) in cui il protagonista è il sindaco stesso, intenzionato con ogni mezzo a valorizzare turisticamente la poco ridente località anche inventandosi delle antiche leggende o un finto tesoro da ritrovare. Il meccanismo del mito della frontiera americano è subito esplicitato da un incipit decisamente western. Ma il tutto viene ben presto “frullato” in un ritmo vertiginoso, quanto a tratti inutilmente insistito se non insensato, per quella che può ben essere definita una commedia demenziale. Antiche leggende da confezionare per il turista consumista e superficiale, un boss della mafia (che viene definito “Chairman Mao“!) in cerca del presunto tesoro ma anche simbolo del neo-capitalismo, sequenze slapstick che rasentano e spesso superano la volgarità spicciola (colpi proibiti alle parti basse di alcuni personaggi): tutto ciò non pretende di avere coerenza e, anzi, Welcome to Shama Town sembra far vanto delle proprie contraddizioni. Lo dimostra, indirettamente, la sequenza “post-finale” del ballo in cui si passa freneticamente da uno stile di danza all’altro. Li Weiran perciò vuole raccontarci la follia collettiva del neo-capitalismo cinese, mostrando come il suo stesso film ne sia inestricabilmente innervato. L’idea poi che tutto si risolverà, nella finzione, con una promozione turistica di Shama Town diretta da Zhang Yimou, il cineasta che ha curato la cerimonia delle Olimpiadi pechinesi del 2008, permette di assestare un ulteriore colpo all’ipocrita costruzione spettacolare che il regime cinese sta mettendo in opera negli ultimi anni. Welcome to Shama Town è dunque un film importante per il discorso politico che fa, anche se non si possono dimenticare i suoi enormi difetti sotto il profilo cinematografico, perfettamente esemplificati da gag lunghissime incapaci di “stare a tempo”.

Tutt’altra impostazione e ben altra coerenza si possono invece ravvisare in The Lost Bladesman, scritto e diretto con precisione millimetrica da Alan Mak e Felix Chong. I due, l’uno in cabina di regia insieme ad Andrew Lau, l’altro in sede di sceneggiatura, sono tra i principali artefici della magnifica trilogia di Infernail Affairs e, oggi, da hongkonghesi, si ritrovano a lavorare per una produzione della Cina continentale. Quel che ne emerge è un wuxiapian (la versione cinese del “cappa e spada”) sostanzialmente tradizionale sia nella regia che nella mirabile coreografia delle scene d’azione. L’elemento autoriale – se così si può dire – nasce piuttosto dalla relazione dei due personaggi principali, il Primo Ministro Cao e il Generale Guan, per un gioco tra gestione machiavellica del potere (Cao) e malinconico istinto guerriero quasi tentato dall’auto da fè (Guan). Una dinamica decisamente concettuale e personale che situa questo film su sponde sostanzialmente opposte a quelle del John Woo neo-romantico de La battaglia dei tre regni. Eppure i due film, oltre ad essere ispirati alla stessa opera capitale della cultura cinese – Il romanzo dei tre regni -, hanno in comune un fattore produttivo di cruciale importanza: i grandi registi d’azione hongkonghese (e va aggiunto anche Tsui Hark) si sono ormai adeguati a farsi produrre i loro film nella Cina continentale. E una delle conseguenze è che l’eccezionalità del cinema hongkonghese, giunto al suo apice tra gli ’70 e gli ’80, si va sempre più facendo un lontano ricordo, fagocitata dai codici inevitabilmente censori del regime della Mainland. Non è un caso allora che sia Alan Mak/Felix Chong che John Woo che anche Tsui Hark, nel momento in cui lavorano per gli Studios della Cina continentale, rinunciano al contemporaneo (il poliziesco e il thriller, ad esempio) e si rifugiano nel classico film in costume, dove i riferimenti all’oggi – se ci sono – passano inevitabilmente per una serie di mediazioni.