Stockholm östra

31/08/11 - La Settimana Internazionale della Critica apre con l'esordio di Simon Kaiser da Silva. Un convincente gioco nostalgico rifinito a regola d'arte.

Dal nostro inviato SILVIO GRASSELLI

Una commedia borghese, anzi no, la storia del tormento di un’anima, nemmeno, una storia di passione e tradimento, macché. Lo svedese Simon Kaiser da Silva esordisce al cinema – dopo una breve ma intensa carriera televisiva – con Stockholm östra, un lungometraggio vitale, non originale ma solido, intelligentemente capace di giocare con le aspettative dello spettatore senza eluderle né deluderle. E così apre anche la ventiseiesima edizione della Settimana Internazionale della Critica, sezione collaterale e competitiva di Venezia 68, fondata e gestita dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici.

L’avvio non potrebbe essere più leggero: in un mattino di sole Johan e la sua compagna danzano lieti sulle note di un’allegra musica latino-americana. Basta però un rapido rallentatore – il montaggio alternato del mattino di qualcun altro, una bambina che sta per incrociare la strada dell’uomo – per far cambiare subito colore al racconto. Procede così Stockholm östra (lett. Stoccolma Est) costruendo un intreccio di snodi tipici, di situazioni e battute classiche, facendo seguire la morte alla vita, e poi di nuovo la vita alla morte e condendo tutto con la passione: un dramma strappalacrime di amore e sangue, un film, si direbbe, da evitare con cura. E invece il mestiere degli attori (tra i quali il sempre convincente Mikael Persbrandt, salito di recente agli onori delle cronache internazionali grazie alla sua interpretazione in In a better world di Susanne Bier, e attualmente coinvolto nei due episodi del secondo progetto tolkeniano di Peter Jackson, Lo hobbit), una direzione della fotografia da ricordare, la scelta accurata e raffinata di scene e costumi hanno costruito il sedimento necessario perché scrittura e regia potessero vincere il gioco raffinato e consapevole con lo spettatore. Infatti non è detto che il luogo comune, il cliché, la soluzione “scontata” debbano invariabilmente condurre alla delusione e alla noia, anzi. Così da Silva ammicca, invita, finge di essere un professionista delle grandi narrazioni degli anni Cinquanta, che si rivolge però consapevolmente al pubblico di oggi: costruisce un percorso in cui non è la sorpresa o l’effetto a far funzionare le cose, ma al contrario, il riconoscimento della promessa mantenuta, l’approdo alla riproduzione di una finzione come quelle che si facevano una volta. Un’allettante, lucida e soddisfacente ricognizione in un cinema che non c’è più che schiva ogni rischio grazie alla propria ludica trasparenza.